Anonima scrittori


Racconto - La Signora Parrini

Categoria: Narrazioni
Postato da: Torquemada

[Il racconto che segue è stato scritto da Patrizia Bartoli, con cui inizia una preziosa collaborazione. Ha partecipato al Premio di narrativa Artuto Loria 2008 di Carpi. E' stato pubblicato dall'antologia del premio, pubblicata da Marcos y Marcos]

La signora Parrini

Nascosta dietro le tendine bianche ricamate a mano, la signora Parrini sbirciava fuori dalla finestra. Il postino aveva suonato due volte e aspettava impaziente al di là del cancello che chiudeva il modesto giardino. Aveva a tracolla la pesante borsa e reggeva con la mano sinistra la bicicletta, mentre nella destra stringeva una piccola busta leggermente rigonfia.
Olga Parrini allungò il collo e strinse i suoi occhi da miope nel tentativo di osservare meglio senza farsi scorgere. Era spinta dalla curiosità, ma non poteva aprire la porta di casa, affacciarsi sulla veranda e ritirare la posta. Non lo faceva più da tempo: il signor Parrini, suo marito, non voleva e lei non avrebbe mai avuto la sfrontatezza di disubbidirgli.
Erano molte le cose che Olga non faceva perché il marito gliele aveva proibite.
Quando il signor Parrini era al lavoro, il che voleva dire tutti i giorni dalle otto a mezzogiorno e dall’una alle cinque, nel suo ufficio di contabile presso la Cartiera Grandi, Olga non doveva mai aprire la porta a nessuno, estraneo o conoscente che fosse.
Il campanello suonava inutilmente e in quelle ore del mattino e del pomeriggio la casa sembrava vuota. La signora s’aggirava tra le stanze pulendo, mettendo in ordine, in silenzio, come un fantasma. Non apriva mai le finestre, né quella della cucina che dava sulla strada, né quelle del salotto e della camera da letto che s’affacciavano sul giardino, non usciva mai nell’orto dove c’era il pozzo e, se doveva lavare o stendere il bucato, lo faceva quando suo marito era tornato. Ascoltava la radio; la televisione ancora non l’avevano comprata, ma, del resto, pochi in quei primi anni Cinquanta la possedevano. Trascorreva molte delle ore solitarie leggendo La Nazione e i settimanali Oggi e Tempo, i suoi preferiti.
Ogni giorno, a mezzogiorno e dieci minuti, il signor Parrini apriva il cancello, appoggiava la vecchia bicicletta sulla veranda, faceva girare la chiave nella porta chiusa a doppia mandata ed entrava nello stretto corridoio. Appariva sulla soglia della cucina con il giornale sotto il braccio e, dopo essersi lavato le mani nel lavandino, si sedeva a capotavola. Mentre mangiava il primo scambiava due parole con la moglie, ma al secondo s’immergeva nella lettura veloce dei titoli e dei sommari. Al mercoledì, insieme a La Nazione, aveva con sé le due riviste.
Dieci minuti prima dell’una, era già fuori sulla sua bicicletta e Olga lavava i piatti, li asciugava, spazzava, dava lo straccio e infine si sedeva in poltrona. Chiudeva gli occhi per un minuto o due e iniziava a leggere a sua volta scartando gli articoli politici che tanto interessavano il marito e scegliendo la cronaca locale e nazionale. In particolare adorava le storie di re e di regine e il mercoledì era il giorno migliore perché su Oggi e Tempo trovava tutto ciò che le piaceva.
Se non doveva stirare o rammendare qualcosa, dopo la lettura, si concedeva un sonnellino, ma alle quattro e mezzo si rimetteva in movimento per il ritorno del marito.
S’affrettava da una stanza all’altra della modesta ma linda casetta per controllare ancora una volta che tutto fosse in ordine, preparava il caffè alla napoletana che, filtrando, liberava lentamente il suo aroma e infine si toglieva il grembiule, si sistemava i capelli e ravvivava le guance con un tocco discreto di cipria.
Indugiava un attimo davanti allo specchio lungo dell’armadio lasciandosi sfuggire un lieve sospiro.
Ogni Lunedì, Mercoledì e Venerdì i coniugi Parrini uscivano a fare la spesa. Il negozio di alimentari e la macelleria erano uno accanto all’altra, mentre quello di frutta e di verdura era un po’ più lontano, di fronte alla scuola elementare. Iniziavano sempre da lì, poi compravano la carne e infine la pasta, il latte e il pane che si facevano tenere dalla mattina. A volte facevano un salto dalla signora Eva per le sigarette, ma erano di nuovo a casa prima delle sette e Olga si metteva ai fornelli mentre il marito riprendeva la lettura del giornale.
La loro vita era una ripetizione di giorni tutti uguali. Non avevano avuto figli e vivevano appartati,  ma, nonostante la stranezza del fatto che la signora non uscisse mai da sola, nessuno dei vicini aveva da dire qualcosa su di loro.
Abitavano in quella casetta a un piano da quasi vent’anni senza mai ricevere una visita.
Una sera, tanto tempo prima, qualcuno aveva suonato al loro campanello e aveva salito i gradini della veranda, ma da allora più niente.
I ragazzini più grandi delle case dintorno raccontavano storie strambe su di loro, soprattutto per spaventare i piccoli.
- Che sciocchezze! - ribattevano le madri, ma anche nelle calde sere d’estate, quando tutti erano fuori a giocare spensierati e i grandi chiacchieravano del più e del meno, era raro che qualche bambino si avvicinasse alla casa per cercare un nascondiglio o per rincorrere le lucciole.
Solo una volta, Paolo, il più piccolo della compagnia, fu costretto a intrufolarsi nel giardino per recuperare il pallone da calcio. Non voleva farlo, ma il fratello lo convinse promettendogli la sua parte di caramelle settimanali. Alla fine si decise e, tremando su quelle sue gambe fragili che uscivano dai pantaloncini come due stecchi, s’arrampicò su per la balaustra, la scavalcò scivolando sulla veranda e raggiunse il vialetto di ghiaia. Trattenendo il respiro, camminò quasi strisciando dietro la bassa siepe di bosso che chiudeva un’aiuola senza fiori. Trovò subito il pallone e, abbandonando ogni prudenza, balzò in piedi per darsela a gambe. Fu allora che si accorse che la persiana era aperta e che dalla finestra con le tendine di pizzo trapelava un po’ di luce.
Si fermò immediatamente con l’idea di far vedere a suo fratello e agli altri che non aveva paura e che, anzi, aveva più coraggio di tutti loro messi insieme. A dir le cose come stavano, il suo cuore batteva tanto da sentirlo in gola, ma non lo ascoltò. Si liberò del pallone e, sotto gli occhi stupiti dei compagni, si accovacciò sui talloni.
Dalle abitazioni vicine arrivavano le voci dei grandi, dalla strada il rumore di qualche rara automobile, ma lì in quel modesto giardino tutto era silenzio. E quasi buio. Paolo appoggiò le mani sulla ghiaia davanti a sé e cominciò ad avanzare carponi verso la persiana, quindi si alzò lentamente in piedi, strusciò con tutto il corpo lungo  il muro e cercò di aggrapparsi al davanzale. Ma era troppo alto per lui. Lo sapeva, eccome se lo sapeva. Quante volte aveva tentato di entrare in camera sua dalla finestra, invece che dalla porta di casa! Tante, ma invano. Suo fratello ne era capace, ma lui no!
Deluso, era sul punto di rinunciare, ma, voltandosi, intravide il volto da furetto di Giacomo, il più antipatico della compagnia, al di là della grata a losanghe del cancello e questo gli bastò per convincerlo a riprovare.
Fece l’unica cosa che poteva: piegò le gambe, spiccò un salto a piè pari e, incredibilmente, toccò con tutte e due le mani il bordo del davanzale. Vi si appese con forza e nello stesso tempo puntò i piedi contro il muro. Rimase in quella posizione precaria senza muoversi per qualche interminabile secondo, poi, allungò la testa e con gli occhi curiosi, ma quasi velati dalla paura e dal sudore che gli colava dalla radice dei capelli, gettò lo sguardo verso l’interno.
Quello che vide fu straordinario: la stanza era priva di mobili a eccezione di una vecchia poltrona nella quale stava seduto il signor Parrini completamente assorto nella lettura alla luce fioca di un elaborato lampadario a gocce che aveva accese due sole lampadine.
Tutt’intorno, dal pavimento al soffitto, cumuli e cumuli di giornali impilati l’uno sull’altro. In un angolo, il piccolo Paolo scorse il mucchio delle riviste.
Della signora Parrini non c’era traccia, ma al di là del corridoio s’intravedeva un’altra luce e il ragazzino pensò che la donna preferisse starsene da sola in cucina piuttosto che in quella stanza squallida che avrebbe dovuto essere il salotto buono di casa.
Lanciò un’ultima occhiata al signor Parrini, infine, timoroso di essere scoperto, si staccò dal davanzale toccando i piedi per terra con un impercettibile rumore.
Dopo aver recuperato il pallone, percorse a ritroso il vialetto di ghiaia, raggiunse la veranda e ne scavalcò agile come un gatto la balaustra riunendosi ai compagni che lo guardavano assolutamente ammirati dalla sua audacia.
Non disse quello che aveva visto e d’altronde nessuno glielo chiese perché ben presto tutti ripresero la partita interrotta.
Paolo però non riuscì a tenere per sé l’immagine del signor Parrini che leggeva circondato da montagne di giornali e prima di addormentarsi, quella sera tardi, si confidò con la mamma.
- Ti sarai sbagliato! Impossibile che i signori Parrini non abbiano arredato il salotto! - tagliò corto la madre che era una santa donna, ma dai modi molto spicci.
Il mattino dopo il sole di luglio splendeva alto nel cielo e Paolo dimenticò quello che aveva intravisto la sera precedente, ma nei giorni e nei mesi seguenti non tentò mai più di scavalcare la veranda di quella casetta a un piano identica alla sua.
Marito e moglie continuavano la loro schiva esistenza. Quando per via incontravano un conoscente salutavano con modi cortesi, ma, senza aggiungere una parola di più, passavano oltre togliendo a chicchessia la voglia di fare due chiacchiere. D’altronde, nel paese della lucchesia in cui vivevano,   quasi tutti avevano imparato a conoscerli:  i Parrini erano i Parrini e tanto bastava.
Quella mattina, dietro le tendine bianche ricamate a mano, Olga cominciava a sentirsi agitata perché il postino non accennava ad andarsene. Era ancora al di là del cancello con il borsone a tracolla che rigirava nella mano destra la piccola busta. Aveva appoggiato la bicicletta al muretto di cinta e aspettava. Eppure sapeva che a quell’ora del mattino nessuno gli avrebbe risposto; avrebbe dovuto semplicemente lasciar scivolare la lettera nella cassetta della posta su cui c’era scritto Ernesto Parrini e andarsene.
A mezzogiorno e dieci, al suo rientro dal lavoro, suo marito avrebbe aperto la cassetta con  la piccola chiave che teneva sempre con sé nella tasca destra dei pantaloni. In tutti quegli anni le lettere personali e le cartoline erano state pochissime: una decina in tutto, appena dopo il loro arrivo, poi più niente.
Se c’era qualcosa d’importante che necessitava di una firma per la consegna, il postino recapitava l’avviso e il giorno dopo era lo stesso signor Parrini che si presentava all’Ufficio Postale.
Cosa che accadeva di rado poiché la posta di Olga e di suo marito era quasi inesistente, così come la loro vita.
Il terzo squillo più lungo dei primi due la fece sobbalzare e  la donna, tremando leggermente in tutto il corpo, si allontanò dalla finestra per non farsi scorgere da quegli occhi indiscreti. Provò un sentimento di sgomento non sapendo che cosa fare, poi, camminando in punta di piedi, uscì dalla cucina e, nel corridoio lungo e stretto dalle consunte ma pulitissime mattonelle esagonali rosse, si nascose furtivamente dietro la porta d’ingresso.
Da lì non poteva vedere che cosa faceva il postino, ma con il cuore che le batteva nel petto come quello di un coniglio selvatico braccato dai cani dei cacciatori pregò che finalmente se ne andasse.
Il quarto squillo sopraggiunse dopo qualche secondo, crudele e definitivo. Provò un odio improvviso e profondo per quell’ometto in divisa che la tormentava. Se solo avesse avuto il coraggio di farlo, sarebbe tornata in cucina, avrebbe aperto la finestra e gli avrebbe urlato dietro di andarsene. Invece, se ne stette lì nascosta, quasi ripiegata su se stessa, con le braccia conserte incapace di ragionare.
- Signora Parrini…- la voce inaspettata sussurrò con garbo al di là della porta – signora, mi ascolti. Ho scavalcato la balaustra della veranda…Lo so che non avrei dovuto farlo, ma… ma ho qui una lettera per lei. Una lettera  con sopra il suo nome: Olga Parrini. Solo per lei, non c’è il nome di suo marito e viene da lontano, dall’Australia addirittura. Ho pensato che le sarebbe piaciuto riceverla personalmente. C’è anche il nome del mittente…Mi sente signora? Sa che cosa faccio? La lascio qui sullo stoino e poi me ne vado, scavalco di nuovo la balaustra, salto in sella alla mia bici e pedalo  lontano. Arrivederci… -
Dopo che il postino ebbe finito di parlarle, la donna attese a lungo rannicchiata nell’angolo tra il muro e la porta dove si era lasciata scivolare.
Una lettera per lei dall’Australia, così aveva detto la voce gentile dell’uomo. Come era possibile che qualcuno le avesse scritto dopo così tanti anni di solitudine? Chi?
Il suo cuore che ancora stentava a riprendersi, perse uno, due, tre colpi e poi fece una capriola di gioia nel petto. Un sentimento che non provava da tanto di quel tempo che lì per lì non riconobbe e che poi la sorprese per la sua violenza. Le guance le andarono a fuoco mentre alcune lacrime inumidirono i suoi occhi miopi.
Se il postino non aveva mentito, al di là di quella porta c’era una lettera per lei. Sulla busta c’era scritto il suo nome, non quello di Ernesto, solo il suo. Questo voleva dire che non tutti l’avevano dimenticata, che qualcuno ancora pensava a lei. Che lei esisteva.
L’esaltazione la lasciò piacevolmente stordita per alcuni minuti in cui non pensò a nulla, infine l’orrore di quello che sarebbe potuto succedere la travolse. Ernesto stava per tornare a casa per il pranzo e la lettera era ancora lì in attesa che lei la raccogliesse. Doveva solo aprire uno spiraglio nella porta, intrufolarvi la mano e afferrarla. Poi, senza leggerla – non osava neppure pensarci – l’avrebbe nascosta e avrebbe atteso il ritorno a casa del marito apparecchiando la tavola, mettendo l’acqua della pasta sul fuoco.
Fingendo che quello fosse un giorno come gli altri.
Fece così e con le mani che non smettevano di tremare corse a nasconderla nel cesto dei panni da stirare. Per tutto il pranzo rimase silenziosa, prigioniera di un’emozione fortissima, ma il marito  immerso nella lettura de La Nazione sembrò non accorgersene.
Quando, all’una meno dieci dopo un saluto distratto, se ne tornò al lavoro, Olga sparecchiò la tavola, lavò i piatti e riordinò la cucina.
La lettera occupava i suoi pensieri, ma non poteva cedere al desiderio di leggerla subito, dilaniata com’era dal senso di colpa che da troppo tempo le  rovinava la vita.
Infine, la recuperò dal fondo del cesto dei panni da stirare - non era scomparsa, come aveva immaginato in un assurdo attimo di terrore -  e stringendola spasmodicamente tra le mani la portò in camera.
Seduta sul letto, per la prima volta posò lo sguardo sull’inchiostro nero con cui era stato vergato l’indirizzo e immediatamente seppe chi le aveva scritto dopo dieci anni di nulla.
Lesse le due pagine fitte fitte con il cuore che le martellava ferocemente nel petto e poi scoppiò in un pianto dirotto e disperato, fatto d’amore e d’odio. Pianse a lungo perdendo il senso del tempo fino a quando stremata si distese sulla coperta in una sorta di sopore rarefatto.
Ernesto la trovò come sempre indaffarata in  cucina con il caffè già pronto per essere versato nella sua tazzina preferita. Notò che aveva gli occhi gonfi e arrossati e con un gesto insolito di attenzione nei suoi confronti le chiese se si sentisse poco bene.
- Un po’ di mal di testa - rispose Olga e la cosa finì lì.
Nei giorni che seguirono la signora Parrini rilesse mille e mille volte ancora la lettera. Ogni volta provava un sentimento di consolazione che tuttavia era sopraffatto dalla consapevolezza che tanti anni prima qualcosa di irreparabile era accaduto nella sua vita. Il ricordo di ciò che era stato tornava con prepotenza e la lasciava affranta senza la forza necessaria di affrontarlo lucidamente.
Inoltre la paura che il marito scoprisse la lettera non le permetteva di abbandonarsi ai propri affetti a lungo sopiti - quasi seccati - nel profondo del suo animo.
Ogni giorno trovava un nuovo nascondiglio timorosa che quello scelto fosse insicuro e, quando Ernesto era in casa, Olga ne seguiva i movimenti da una stanza all’altra e tratteneva il respiro, presa dal panico, se, per caso, il marito si avvicinava al luogo in cui l’aveva riposta.
La Domenica era il giorno più lungo e difficile da far passare perché Ernesto non si allontanava di casa e se usciva, Olga lo accompagnava, come sempre.
D’altronde, ben presto, quelle parole che venivano dal passato le si impressero nella mente a una  a una. Sempre più spesso quando era indaffarata nei lavori domestici o trascorreva vagamente le ore  di solitudine della sua giornata, alcuni brani della lettera le affioravano alla bocca e le tenevano una dolce compagnia.
Un giorno, mentre era intenta a rammendare un vecchio paio di calze, fu sorpresa dal signor Parrini a parlare tra sé, sussurrando qualcosa di incomprensibile. L’imbarazzo che apparve sul suo volto quando le chiese a che cosa stesse pensando, lo infastidì, ma infine dimenticò la cosa pensando che si trattasse di una sciocchezza, una delle tante a cui sua moglie, ne era sicuro, si lasciava andare in preda alla sua immaginazione malsana.
Ma quella volta Ernesto si sbagliava perché la lettera nascosta e quelle parole mandate a memoria erano importanti e rendevano meno tristi le giornate di Olga.
Nel tempo, con il passare dei mesi, crebbe in lei il desiderio di rispondere a chi le aveva scritto donandole momenti di felicità e, nel segreto del suo cuore, una rinnovata anche se fragile possibilità di vita.
Ma non sapeva come fare.
In casa, non aveva la carta da lettere per via aerea e le mancava l’opportunità di procurarsela. Da troppo tempo il marito le aveva proibito di uscire da sola e il pensiero di disubbidirgli la faceva star male.
Così si stringeva nel suo sogno e ogni mattina si nascondeva dietro le finestre della cucina in attesa del postino.
Avrebbe potuto chiedere aiuto a lui che si era dimostrato così gentile, ma quando lo vedeva apparire

sulla sua bicicletta con il borsone a tracolla, non trovava il coraggio di chiamarlo. D’altra parte, il postino, dopo quel lontano giorno, non si era più fermato alla sua porta se non due o tre volte e senza mai suonare il campanello.
A mano a mano che il tempo trascorreva, il sentimento di gioia provato con l’arrivo della lettera svaniva, vinto da una sofferenza che le pungeva l’anima e si faceva insopportabile.
Ogni mattina era sempre più difficile iniziare la giornata dopo una notte di sonno agitato dal quale si svegliava più volte terrorizzata. Un incubo aveva preso a perseguitarla: in piedi, su un palco di fronte a decine di uomini e di donne ripeteva, quasi recitava, le parole imparate a memoria. Quando stava per finire, il marito irrompeva nella sala gremita e con gli occhi pieni di fredda rabbia le puntava il dito contro costringendola a rivelare la sua colpa.
Ma quale colpa?
A ogni affannato risveglio, Olga temeva di aver parlato nel sonno e, madida di sudore con il cuore che le batteva all’impazzata nel petto, volgeva lo sguardo sul marito che dormiva dandole le spalle.
Non poteva più sopportare quella paura che le impediva di vivere. Lentamente, ma con determinazione, comprese che avrebbe dovuto trovare una soluzione a quella sua vita fatta di niente che troppo a lungo aveva accettato. Doveva disfarsi di quell’inutile senso di colpa che da anni la stava soffocando e che non aveva ragione di essere.
Così una mattina di uno scintillante e insolitamente caldo giorno di marzo - erano ormai passati mesi e mesi dall’arrivo della lettera - appena suo marito fu uscito di casa per andare al lavoro, lasciò la colazione sul tavolo, non rigovernò la cucina, non rifece il letto, ma si preparò con cura.
Si lavò i capelli, si truccò lievemente e, dopo aver  indossato il suo completo migliore - un vestito a giacca marrone con una camicetta bianca - fu pronta per uscire.
Non fu facile aprire la porta di casa e affacciarsi sulla veranda, oltrepassare il cancello e camminare sul marciapiede lungo le casette tutte uguali della via in cui abitava. Avanzava insicura tenendo gli occhi bassi davanti a sé nel timore che qualcuno incrociasse il suo sguardo, ma ormai aveva deciso e, anche quando s’inoltrò nella via principale tra i negozi e i due caffè uno accanto all’altro, non esitò sebbene tutto il suo corpo fosse scosso da spasmi che a stento riusciva a contenere.
Raggiunse l’Ufficio Postale e, tra gli sguardi increduli delle due impiegate e di alcuni clienti, avanzò con fare smarrito verso lo sportello aperto al pubblico. Attese il suo turno e poi chiese una lettera e una busta per l’Australia cercando di non far trapelare dalla voce il panico che la stava divorando.

In piedi davanti allo scrittoio riservato ai telegrammi, con un senso infinito di liberazione, diede sfogo a ciò che aveva dentro con parole miste di gioia e di tristezza.
La testa le girava, il cuore era in subbuglio e più e più volte fu costretta a fermarsi: la mano le tremava talmente tanto che le era quasi impossibile scrivere. Fu sul punto di strappare quei due fogli sottili e fuggire via, ma non lo fece costringendosi a continuare, aggrappata a una forza di volontà che non aveva mai saputo di possedere.
Infine, vuota di ogni energia, incapace di andare oltre, firmò semplicemente con il suo nome. Chiuse la lettera nella busta su cui vergò l’indirizzo lontano e la consegnò all’impiegata. Pagò l’importo dovuto e salutando appena con un sussurro esausto se ne andò in silenzio.
Fuori il sole splendeva e a Olga non sarebbe dispiaciuto cedere al desiderio di fare una passeggiata lungo il viale che portava alla piccola stazione, ma si ricordò della casa da riordinare prima del ritorno di Ernesto.
Aveva già tentato abbastanza la sorte e non si sentiva più audace di così, ma era felice come non lo era mai stata da dieci anni.
Tuttavia camminò a passo lento riuscendo ad apprezzare il calore del sole sul suo volto segnato dal tempo. Quando svoltò l’angolo di via Cairoli incontrò il piccolo Paolo che giocava tutto solo con le biglie. Chissà perché non era a scuola, si chiese
Il ragazzino, vedendola, sgranò i suoi occhi chiari colmi di sorpresa e rimase con il ginocchio sinistro appoggiato per terra e l’indice della mano destra pronto a colpire la biglia come se fosse stato colto da un incantesimo.
Olga non ritrasse i suoi, ma gli sorrise sfiorandogli leggermente i capelli arruffati.
Poi riprese il cammino verso casa: tra poco più di un’ora suo marito sarebbe tornato per il pranzo e lei sarebbe stata lì ad attenderlo, come ogni giorno.
Ma non era del tutto vero perché quel giorno aveva in sé qualcosa di straordinariamente diverso.

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