Racconto - Laura
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[Racconto di Vittorio Rainone. Con la sua storia 'L'uomo interattivo' è tra gli autori selezionati nell'ultima fatica anonima, 'Il Bit dell'Avvenire', libro ideato da Deltaeffe e pubblicato da Tunuè.]
LAURA
Laura è speciale.
Lo so, l’ho detto per molte donne: un elenco di miraggi, di fuochi fatui.
Ma adesso no, c’è qualcosa. E’ come se mi strappasse i pensieri dal cranio e li buttasse davanti a me, indicandoli e rendendoli più chiari.
Laura è unica.
Ho speso molto più tempo del solito per vestirmi: la scelta è caduta su un paio jeans chiari, una delle mie camicie con le iniziali ricamate, cravatta di seta e giacca nera di velluto. Mi guardo allo specchio e controllo i capelli, li arruffo un po’ spingendo un ciuffo dispettoso sulla fronte. Sorrido, inclino il viso e registro gli occhi che si stringono, mentre qualche ruga di espressione si traccia agli angoli della bocca. Non male, mormoro, ce la puoi fare.
Laura è fantastica.
Ci siamo incontrati tre mesi fa, ero appena entrato nel progetto. Ricordo il boss che mi presentava ai ragazzi ed elencava i nomi. Poi vedo questa cascata di capelli lisci, il suo nome risuona nell’aria, lei si volta, sembra conservare un residuo della concentrazione per il documento che sta riempiendo. Mi guarda e mi sorride ed è come se tutto in lei partecipi a quell’espressione distesa.
Non so se mi è piaciuta da subito. Magari è stupido pensarlo, ma è curioso come quel singolo frammento di memoria continui a tornarmi in mente, in questi giorni, come se tutto fosse non solo partito, ma definito in modo compiuto da quei pochi istanti. Il colpo di fulmine cui dico di non aver mai creduto.
Laura è stupenda.
Sono nervoso. Cerco le chiavi e mi accorgo di averle dimenticate su, corro a prenderle e le trovo nell’ultimo posto possibile, torno verso la macchina tastando le tasche e sperando di non dover risalire per il cellulare. No, Eccolo. Il suono dell’allarme che si disinnesca, piego la giacca e la deposito dietro, infilo la chiave e ascolto il motore avviarsi.
Sono in anticipo, forse troppo, ma è tutto il giorno che ci penso, si può dire che non ho programmato di fare altro, per queste ventiquattr’ore.
Laura aveva una relazione.
Me l’ha raccontato. Non subito, i primi giorni era sulle sue. Sedeva in disparte e guardava il display del telefono, riceveva chiamate come fossero medicine. E appariva tesa, mentre parlava. Io cercavo di entrare nel gruppo di lavoro, scherzavo con gli altri, non le ero vicino, se non per timidi tentativi sotto forma di sguardi incuriositi.
Poi abbiamo iniziato a collaborare, sono arrivate le nottate per le consegne, le pizze alle dieci di sera, confidenze involontarie nei momenti di pausa. I suoi problemi, descritti con quei colori di cui solo lei è capace, con una leggerezza che intuivo nascondere una sequenza di litigi e pianti.
Il taxi, in due, verso l’albergo. Lei che guardava la strada lucida di pioggia, io che parlavo con l’autista cercando di coinvolgerla e strapparla alle sue domande private.
Sono da Oreste, mi ha promesso il miglior mazzo di fiori. C’è gente, mi dice che per avere un’opera d’arte toccherà aspettare. I minuti iniziano a correre, passano troppo in fretta. Vedo sfumare il vantaggio del mio anticipo esagerato. Mi dico che va tutto bene, che c’è tempo.
Oreste inizia a lavorare per me, sussurra che non servono troppi colori, si dedica a una fantasia di rossi e bianchi. Sosta davanti ai vasi. Contempla. Sceglie. Disfa. Gli ricordo che entro un’ora devo essere altrove. La prende un po’ male e mi ordina di uscire. Dice che poi, comunque, lo ringrazierò.
Sono fuori e fumo. Una sigaretta, veloce, poi una seconda, e intanto lancio sguardi al di là della vetrata, delle piante e dei colori schierati. Fumo e mancano quaranta minuti per incontrarla.
Oreste mi chiama e mi porge una cosa bellissima, indescrivibile, ostentando il suo solito ghigno da vecchio marinaio. Vorrei abbracciarlo, un po’ mi commuovo. Pago e lo ringrazio, prometto di passare, domani, e dirgli come è andata.
Scappo via.
Sono in macchina, i fiori riposano dietro, li ho adagiati con tutta la cautela del mondo. Il cruscotto si accende insieme al cellulare. Un messaggio, “Non vedo l’ora, sai?”. Anch’io, penso, anch’io.
I suoi capelli, quel profumo spettacolare, un misto fra l’odore della sua pelle e Blu di Bulgari. Uno dei regali ricorrenti di lui, dell’idiota con cui si è rovinata la vita per tre anni.
Fino a quel giovedì sera di un mese fa.
Quando gli occhi di Laura mi hanno raccontato molto più delle tre piccole parole “mi ha lasciato”. Gli occhi, la bocca, le lentiggini accennate, il collo lungo ed esile, quelle gambe sottili che nasconde sempre nella discrezione di calze scure e gonne al ginocchio.
E’ tardi e accelero, la sera è appena iniziata e c’è traffico. L’anticipo che avevo si è dileguato, e con esso ogni residuo di calma.
Che farò stasera? Rovinerò tutto?
Magari arrivo da lei, sudato per la corsa che ho fatto, balbetto, dico fesserie.
Lo vogliamo entrambi, lo vogliamo troppo. Può essere il problema principale.
Mi sento sporco, mi sento uno sciacallo pronto a calare sulla carcassa quando il leone ha perso interesse. Andrà male, lei avrà ancora in mente quel bastardo, dovrei aspettare di più.
Guardo nello specchietto, controllo che ogni centimetro del mio viso sia a posto. Spazzolo qualche pelo di barba con il dorso della mano.
E’ in quel momento che succede.
Un rumore sordo, poi un altro. Il parabrezza si curva verso di me e diventa una ragnatela di frammenti di vetro che sorregge un pacco grigio. Solo che non è un pacco.
C’è qualche scampolo di automatismo che spinge il mio piede sul freno, anche se intuisco che non serve più. L’auto inchioda, slittando sulle ruote posteriori e disponendosi in diagonale, in mezzo alla strada. L’airbag entra in azione e mi colpisce il viso, che nel frattempo si è avvicinato al volante per effetto della frenata.
C’è rumore dietro di me, clacson, altre macchine che si bloccano, qualche urlo.
Una sensazione ovattata cresce fino ad un dolore forte sul naso. Faccio per toccarmelo e una lancia mi trapassa il cervello, mentre tutto prende a pulsare. Ritiro la mano e osservo. E’ rossa di sangue, e così la camicia con le iniziali ricamate e la cravatta di seta. Svengo.
Paolo Maugeri era un pensionato.
Era andato a comprare mezzo chilo di paste mignon per sé e per Elena Maugeri, sua moglie. Non perché ci fosse qualcosa da festeggiare. Una sera come tante, si erano detti, perché non concedersi un piccolo premio? Ce lo meritiamo, avevano concluso.
“Dammele buone, disgraziato, o te le riporto”, aveva minacciato ridendo, poi aveva scelto cannolini, veneziane al cioccolato, mini babà e soprattutto crostatine ai frutti di bosco: la specialità di “Sfizio”, la sua pasticceria da trent’anni.
Si era fermato a parlare un po’ degli acciacchi e delle pillole ogni mattina e sera, degli immigrati, del nuovo sindaco. Tanto sono tutti ladri, aveva commentato con la cassiera, e non è vero che prima era meglio. L’unica differenza è che prima c’era meno gente.
Paolo Maugeri è uscito da “Sfizio”, ha pigiato più volte sul pulsante di prenotazione del semaforo pedonale, perché non si è mai sicuri che funzioni. Ha atteso il verde. Si è avviato sulle strisce, a passi piccoli e occhi rigidi davanti a sé. Felice di aver trovato le veneziane, che tanto piacciono ad Elena.
L’ultimo suo pensiero cosciente è stato per carta igienica e sapone: sarebbe passato dal supermercato sotto casa, già che c’era.
Laura ha una voce lontana.
Sembra arrabbiata, più che preoccupata. Mi chiede che è successo, e non riesco ad articolare le parole al telefonino. Un medico mi sta dicendo al rallentatore che sono in stato di choc, che è meglio richiamarla dopo. Gli ripeto che non capisce: è Laura. Che Laura è l’amore della mia vita. Lei sente, dalla cornetta, mi chiama, più volte. Ma nulla: è come nei sogni, non riesco a risponderle.
Perché qualcuno interrompe la conversazione.
Un carabiniere alto, occhi neri enormi, una divisa verticale come la torre di un castello.
Indica la mia macchina, dove un signore anziano che non conosco ha quasi sfondato il parabrezza. Parla, ma i suoni non mi arrivano, tanto che cerco di farglielo notare. Vedo che mi si avvicina, vedo la rabbia nei suoi occhi. Morto sul colpo, mi dice, omicidio colposo, mi dice, testa di cazzo, mi dice.
C’è tanta gente, intorno. E’ tutto un lampeggiare blu, bagliori di foto occasionali, vociare confuso. Qualcuno grida di circolare. Il traffico si addensa su di me in una processione lenta di occhiate morbose.
Mi stringono il braccio destro appena sotto la spalla, mi spingono via, una voce ordina di salire e mi ritrovo seduto sul lettino di quella che dev’essere un’ambulanza. Davanti a me c’è il medico di prima e un altro carabiniere.
Non parlano e mi guardano, non fiatano e mi fissano.
A qualche metro, davanti ai fari della mia macchina, ancora accesi, c’è un pacco rosa e bianco con un fiocco rosso, schiacciato contro l’asfalto.