Anonima scrittori


Sei anni di Anonima Scrittori

Categoria: (r)esistenza, Interpretazioni, Narrazioni
Postato da: Torquemada

[Sei anni fa, più o meno in questo periodo, l'Anonima Scrittori esordì nel world wide web con la prima tornata di racconti del Progetto Roraschach. Abbiamo iniziato a scrivere facendo subito terapia, psicanalitica per la precisione. Solo 13 giorni dopo, era il 14-15 Febbraio, Massimiliano 'Zaphod' Lanzidei faceva il suo esordio nel primo reading, presso la Biblioteca Euriloco a Villa Fogliano, a Latina. In cosa consisteva concretamente il 'Progetto Rorschach'? Cinque scrittori residenti e una miriade di fuori quota dovevano trarre ispirazione da un disegno. Dei racconti arrivati, uno è ancora sopravvissuto nei reading che l'Anonima porta e ha portato in giro per l'Italia: Il Gatto. Nei prossimi giorni altri saranno i racconti che verranno postati per festeggiare nella maniera migliore il sesto compleanno dell'officina letteraria. Ogni particolare, del progetto Rorschach e degli altri aspetti dell'Anonima nei prossimi giorni, quando verrà resa pubblica l'iniziativa 'Vedi alla voce Anonima']

Il Gatto
di Graziano ‘Torque’ Lanzidei

Il semaforo era rosso. Frenai. La macchina, come al solito, emise un inconfondibile stridio. Il climatizzatore funzionava a dovere. Gradi 23 all’interno della macchina, 3 gradi all’esterno. Ore 21.27. Mi divertivo a vedere il mondo esterno che congelava mentre io, dentro l’abitacolo, mi godevo il benessere che pagavo, anche troppo, a rate. Guardai a destra e iniziai a leggere i manifesti attaccati su una serie di pannelli ondulati in metallo che delimitavano quasi da sempre una zona in costruzione. Guardai alla mia sinistra e vidi spuntare da dietro l’edicola un extracomunitario, forse un indiano. Aveva con sé l’attrezzatura del lavavetri. Il braccio sinistro teso per portare il secchio e nella mano destra il tergicristalli manuale. Stavo verificando se avevo spicci a sufficienza per farmi lavare i vetri quando dal secchio, all’improvviso, uscirono fuori un paio di zampette, seguite dalla testa di un gattino. Mentre l’indiano avanzava verso il finestrino, il cucciolo mi fissava. Il padrone si fermò a qualche decina di centimetri dalla portiera e mostrò ancora meglio il contenuto del secchio, inclinandolo.
“Amico, ti interessa gattino?” chiese implorandomi.
“E dove lo metto?” risposi scrollando le spalle.
“A casa” fece lui e non seppi come replicare.
“Perché?” chiesi, gesticolando come uno zotico.
“Domani parto. Vado via”.
Ancora silenzio. Dovevo sbrigarmi ad andare da Carmen. Il semaforo era diventato verde. Stavo per accelerare, lo giuro, solo che l’indiano si appoggiò al finestrino.
“Mi dici che vuoi?” sbuffai, anche se impaurito.
“Vorrei soltanto lasciare il gatto a brava persona” rispose.
“I gatti li odio” e per convincerlo, cercai anche di assumere un’espressione cattiva, la più cattiva possibile.
Lui sorrise, guardò il gattino nel secchio e accarezzandolo gli disse qualcosa di incomprensibile, anche se aveva un suono dolce e delicato. Avrei voluto fare qualcosa per cambiare il corso degli eventi. Sarei potuto scendere e dirgli di andare a rompere le palle da qualche altra parte. Rincontrollai a destra i cartelli. Guardai il climatizzatore che segnava all’interno sempre 23 gradi, all’esterno 2,5. Le ore 21.34.
Mi limitai a scuotere la testa e feci un vago cenno d’assenso. L’indiano aprì lo sportello alla mia destra e posò sul sedile il secchio con il gattino. Salutò velocemente me e lui. Avevo l’impressione che avesse trattenuto a fatica le lacrime e non avesse voluto concedere a quell’addio straziante più di un secondo. Richiuse lo sportello. Guardai il gattino, bianco con piccole e irregolari macchie colorate nere e grigie. Uno di quei classici bastardini, come simpaticamente sappiamo apostrofarli noi umani. Poi guardai fuori, ma l’indiano sembrava essersi volatilizzato. Dopo aver assicurato bene il secchio, per evitare troppi sballottamenti, ripartii. Il telefonino squillò.
“Quando arrivi?” e il tono di Carmen non era dei più promettenti.
“Tra un quarto d’ora”
“Lo sai che sei già in ritardo?”
Guardai l’orologio. Le 21.35. Solo cinque minuti di ritardo, esagerata come al solito.
“Mi farò perdonare. Ho con me una sorpresa”.
“Sbrigati” eppure l’avevo sempre saputo che la curiosità non era il suo forte.

7 anni dopo

Il gattino, ormai, era diventato un gattone. 10 chili di salute che pascolavano per casa limitandosi ad alternare il sonno al cibo e viceversa. Jimmy si addormentava sulle mie gambe, mentre guardavo la televisione, oppure iniziava a seguirmi in ogni parte della casa. Per questa sua costante presenza era diventato ormai anche il mio confidente preferito. Anche perché era forzatamente discreto. A volte però aveva la capacità di farmi capire la noia che provava ad avere un padrone sfigato e logorroico come me. Gli bastava soltanto un’occhiata e uno sbadiglio. L’argomento dei miei monologhi era sempre e solo lei, Carmen. Dopo 7 anni se n’era andata sbattendo la porta e portandosi dietro tutto, tranne quel gatto enorme. L’aveva smesso di amare da quando non inseguiva più quel gomitolo di lana che lei aveva acquistato, parole sue, “con tanto amore”. Carmen se n’era andata lasciando dietro di sé un cuore infranto e tante, tantissime parolacce che avevano come incontrastato protagonista me e “quel cazzo di gatto che hai portato”. Ogni tanto mi permettevo di fare a Jimmy qualche domanda. “Secondo te ritornerà?” oppure “E’ un bene che se ne sia andata?” o ancora “Pensi che ci metterò tanto a trovarne un’altra?”. Ero un fiume in piena, per usare un’immagine poetica. E lui sempre lì che sembrava addirittura sottolineare le domande più intelligenti. Mi rendevo conto però che, nonostante l’addio e gli insulti, avevo bisogno di lei. Come un tossicodipendente dovevo assumere la mia dose giornaliera, chiamandola per sapere cosa faceva e sapere soprattutto se e quando sarebbe tornata. Perché, e ne ero convinto, lei non poteva far altro che rientrare, così com’era uscita.
“Uno come me non riesce a trovarlo tanto facilmente” era la chiusura di ogni discorso.

Era tarda estate. Stavo sul balcone per godermi un po’ di fresco, leggendo un libro. Il gatto riposava ai miei piedi, ronfando. La crisi d’astinenza arrivò all’improvviso. “Devo sentirla”. Presi il cellulare e composi il numero. Il telefono continuava a squillare a vuoto. Rispose solo alla terza chiamata.

“Che vuoi”
“Volevo solo sentirti per sapere come stavi”.
“Che ti frega di come sto? Perché non mi lasci stare?”
“Perché mi rispondi così?”
“Senti… adesso sono fuori con amici e amiche… stavo cercando di passare una serata piacevole ma te…”
“Non pensavo di rovinare i tuoi progetti con una semplice telefonata. Sei proprio una stronza”.
“Stronza io? Guarda che sei uno stronzo tu che non capisci” e poi qualche secondo di silenzio. Qualcuno, in sottofondo, ridacchiava.
“Carmen, non strillare” e cercai di calmarla, le dissi che non avrei dovuto chiamare e che era stato un errore. In realtà avevo solo paura di compromettere troppo la nostra lunga agonia. “Facciamo come se non fosse successo nulla”.
“E no, caro mio. Adesso andiamo avanti fino alla fine, visto che ci siamo. Mi hai fatto fare una figura di merda davanti a tutti i miei amici. Colossale bastardo, ci tieni proprio a sapere la verità? non riuscii a risponderle.
“Ho un altro” continuò lei, strillando.

Non riuscii ad andare oltre la prima lettera di tutte le parole che mi venivano in mente. Riattaccai. Lasciai cadere le braccia e rimasi ad ascoltare il cuore nel petto che rimbalzava. Il gatto non ronfava più e mi fissava. Iniziai con un lamento nuovo.
“Ma come ha potuto?” la testa sembrava mi stesse scoppiando, “non tornerà più, Jimmy. Perché… perché sta con un altro”. A quel punto mi sembrò che il gatto avesse preso a guardarmi avvilito. Poi aprì la boca, come per sbadigliare.

“Svegliati, cazzo” non sono mai riuscito a capire se si trattò di un’allucinazione “sono sette anni che tartassi i residui dei miei coglioni con questa Carmen. Ancora che ci perdi tempo? Guardati intorno, conosci gente, distraiti. Fai una qualunque cazzo di cosa. Basta che non mi fai sentire più un solo lamento” e poi, abbassando il tono, sbuffò “che due palle questi umani. Almeno l’indiano manco lo capivo”.

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