Anonima scrittori


Cronache da un pianeta abbandonato

Categoria: Cronache da un pianeta abbandonato, Progetti
Postato da: Torquemada

[Si riparte. Dopo la pubblicazione del Bit dell'Avvenire e prima di mettersi al lavoro per (r)esistenza, Anonima Scrittori riapre il laboratorio di scrittura di Antonio Pennacchi. Il prodotto finale è il romanzo collettivo 'Cronache da un pianeta abbandonato'. Per rinfrescare la memoria agli interessati, pubblichiamo i primi due personaggi del primo capitolo, Karel e Erika, già pubblicato sulla rivista Nuovi Argomenti della casa editrice Mondadori]

Cap. 1 – IL CIRCO

Karel
Il circo si piazzava sempre dietro i portici dell’Intendenza a modificare ogni volta l’immagine dei mondi da noi conosciuti. Dietro quei portici – quel colonnato altissimo, imponente, con ancora impressi i simboli del passato regime e dietro i quali si sarebbe dovuta espandere la colonia, la gigantesca testa di ponte per il nuovo Balzo in Avanti – c’era per noi quotidianamente il nulla: solo lo spiazzo da cui spuntavano ogni tanto, frammisti a ciuffi d‘erba, i ferri arrugginiti e il cemento dell’erigendo, tanti anni fa, mercato coperto. Poi più niente, eccetto la piana interminata dei deserti e le nubi di polvere – quando s’alzava il vento – a scacciare da quello spiazzo anche le bande di ragazzini che si affrontavano a mazzafionda dopo la scuola. La notte solo – la notte, quando i soli calavano, ma prima che s’alzassero le lune, in quel breve ed unico intermezzo buio – tutta la colonia si ritrovava in piazza in un non detto, padri e figli, in un appuntamento mai fissato; con gli occhi dritti a rimirare, dietro i pilastri del colonnato, i mondi lontani e qualche raro estraneo passaggio di navicelle spaziali: “Chissà dove andranno”.
Erano anni che non atterravano più cargo regolari. Neanche la posta, neanche le notizie. La “Gloriosa Ricerca” – come s’era detto allora – “del mare di galassie che pur dovevano esserci oltre i Cieli del Buio e che aspettavano solo Noi”, era per sempre rimandata. Caduto il regime, caduta la Ricerca. E con essa la colonia. Niente più arrivi. Niente più invii. Si apriva una volta l’anno – alla congiunzione di Gagarin-2 con Unamuno-24 – lo spazio di un’ora per le comunicazioni con la deputazione più esterna della Federazione, ed in quell’ora facevamo incetta di soap, film e tg da rivedere tutto l’anno. Poi più niente, neanche un mercante o un contrabbandiere scalcagnato. Solo – ogni tanto – un circo. Ci alzavamo la mattina e vedevamo all’improvviso, di là dai portici dell’Intendenza, il tendone già montato che sbarrava il passo alle nubi di polvere ed ai venti del deserto.
Mio padre mi ci portava la sera stessa, tenendomi sempre per mano, con la camicia pulita e i capelli lisci di brillantina. Giravamo prima attorno al tendone, a guardare le gabbie delle fiere e gli inservienti che risaldavano lastre – al limite delle sabbie e dello spiazzo – sullo scafo malandato. Poi entravamo tra i suoni dello spettacolo e restavo tutto il tempo lì – con gli occhi sbarrati e con la mano sempre nella sua – a sognare il vero mondo, la vera vita: “Da grande andrò via anch’io con il circo”. Neanche m’accorgevo che il lanciatore di coltelli era sdentato, gli orsi di Vega-7 spelacchiati e la Venere di Orione-3 – danzante sul trapezio – aveva le calze a rete sfilacciate. Me le faceva notare lui, mio padre, nel ritorno, ridendo. E io ritraevo la mano.
Oggi non porto mai mio figlio al circo, quando arriva in colonia. Vado da solo. E se la trapezista ha le calze bucate, risento ancora la mano di mio padre nella mia. Dopo il numero però vado dietro il tendone e, spesso, per 30 crediti gliele tolgo io. Le sfilo pian piano, accarezzo quei buchi e poi la bacio tra le gambe sudate. Lei si piega tra le gabbie delle fiere su di un plinto del mercato, inarca i muscoli duri per reggersi, come sul trapezio, ai ferri del cemento mentre, prima di prenderla, la ribacio da dietro. Ai lumi delle lune si vedono, da sotto, i seni dondolare.
Torno a casa da mio figlio che dorme dalla signora di sopra. Lo porto giù in braccio senza svegliarlo. Gli lascio le liquirizie vicino al cuscino. Vado in camera mia. Sul letto grande. Da solo. Ad aspettare che arrivi di nuovo il circo.

Erika
M’è toccato chiudere la bancarella e riportarmela via. Era venuta proprio Ursula a dirmi: “Hanno ragione loro”.
“Sì, padrona”, le ho fatto. Ed ho obbedito.
M’ero portata proprio tutto: liquirizie sia gommose che dure – lunghe e corte – arachidi, nocciole, semi tostati e salati, ceci, lupini, mandorle caramellate, torrone ed amaretti. A destra della bancarella avevo sistemato la macchinetta per lo zucchero filato e nel cassetto pensavo di mettere i soldi come faceva mia suocera. Ogni volta che lo apriva ricontava sia gli spicci che i biglietti, poi segnava tutto su un foglietto che riponeva nel reggiseno: “Una volta con il circo si facevano dei soldi”, diceva lei. Ma a me m’hanno cacciato: “Lo zucchero filato ce lo facciamo noi. Che ci siamo venuti a fare allora fin qua?”
“Ma chi vi ci ha voluto”, gli volevo rispondere: “Statevene a casa vostra”. E invece è arrivata Ursula. M’è toccato ricaricare tutto sul carro e tornare al negozio: “Domani sera però ti spezzo, in palestra”.
Lui stava come lo avevo lasciato: seduto al tavolino vicino all’entrata, con la mano destra poggiata al bastone e lo sguardo fisso oltre la vetrina – senza dire una parola – esattamente come suo padre quando eravamo bambini. Lui gli si metteva vicino a rifarne già le mosse e – come lui – si muove di lì adesso, qualche volta, solo per spostarsi in veranda, con la sedia attaccata al vetro. Da piccolo stava sempre sull’ultimo scalino, con i gomiti sulle ginocchia e i pugni chiusi sotto il viso. Ma di che mi sarò innamorata?
Passo le giornate a tentare di parlargli da dietro il bancone: “Allys, mi senti? Essì che mi senti. Allys, mi passi quel bicchiere? Allys, mi senti? Ma parla almeno a tuo figlio”.
Niente. Un muro che non risponde. Quando gli porto una grappa, mi fissa qualche volta negli occhi, mi scava dentro fino a turbarmi la coscienza e si rimette a fissare il vuoto. La gente viene, beve, fa, ride, compra e scherza come se lui non ci fosse. E noi non ci siamo per lui.
Solo Martin il giornalista si informa. Mi chiede come sta, mi chiede se parla e se mi ricordo della madre di Allys.
“No”, vorrei rispondergli ogni volta, “non mi ricordo di mia suocera”.
E invece gli rispondo “Sì” e lui va avanti con i ricordi suoi. Dice che fa il giornalista, ma come vuoi che campi il giornalista di un foglio mensile di una colonia così piccola che tutti sanno i fatti di tutti ancora prima che succedano? E lui infatti deve andare a giornata.
Chi gli dà ogni tanto qualcosa da fare è Foost il fabbro, quando deve forgiare pezzi grandi e gli serve per forza una mano alle pinze. Ma succede di rado e chi deve mantenere la famiglia è la moglie, povera Sophie, che deve andare tutti i giorni – tra un vestito e l’altro – a fare i servizi a casa del Giudice. Lui – il giornalista – tra figlie, figli, operai e apprendisti di quel taccagno di Foost,  deve sperare solo in un’epidemia perché lo chiamino più spesso. Così si adatta a tutto – dice lui – va a fare il bracciante nelle fattorie, pulisce le erbacce dalle strade, ma soprattutto sta in giro per i bar. Soprattutto il mio. A chiedermi ogni volta se mi ricordo di mia suocera. Uno zingaro. Come quei maledetti del Circo.
Però Martin è l’unico che ordina due grappe – se non ha i soldi dice “Segna!” – le porta al tavolino, si siede davanti ad Allys, gliene allunga una ed inizia a parlare della vecchia miniera abbandonata e delle gallerie dove solo loro due sarebbero penetrati da piccoli. Ma quando mai? Allys che si alzava dai suoi scalini?
Lui lo sta a sentire con lo sguardo sempre fisso al di là della vetrata fino a che – andando via – Martin dice: “Ma prima o poi lo troviamo, io e te, il filone nuovo”.
Allora sorride e gli esce, in un fruscio, un “Ciao”. Basta.

One Response to “Cronache da un pianeta abbandonato”

  1. rindindin Says:

    evviva!

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