Anonima scrittori


Dire di sé al femminile : Anais Nin, Peggy Guggenheim, Fernanda Pivano

Categoria: Interpretazioni, Sulla letteratura
Postato da: Faust Cornelius Mob

a cura di Sergio Duma

L’esistenza, con gli avvenimenti che si dipanano nel corso del tempo, può essere considerata un labirinto dai complicati meandri (almeno per ciò che concerne vite particolarmente intense). Anche le narrazioni, da questo punto di vista, nei loro esiti più riusciti, potrebbero essere definite nello stesso modo. E le autobiografie, in particolare, costituiscono veri e propri labirinti narrativi. Leggendoli ci addentriamo nelle anime tortuose di coloro che li hanno scritti. L’immagine del labirinto è rilevante se pensiamo ai surrealisti che alle intricate strutture dei mondi interiori hanno dedicato particolare attenzione. E quando si parla di surrealismo non si deve solo pensare a Max Ernst o a Salvador Dalì, tanto per fare qualche nome, ma anche ad interessanti personaggi femminili che con il surrealismo (e con il dire di sé) hanno avuto molto a che spartire. Questo breve intervento, quindi, si concentrerà su tre donne diverse ma, come vedremo, con collegamenti e analogie. Donne che, al di là delle loro molteplici attività, sono ricordate anche per aver scritto affascinanti autobiografie.

La Musa dei Surrealisti.

Quando si ragiona sulle arti figurative del Novecento e sulle rivoluzioni estetiche, espressive e comunicative rivoluzionarie che hanno rappresentato, è inevitabile nominare l’americana Peggy Guggenheim. Nata nel 1898 da una ricca famiglia ebrea di industriali americani, entrò in giovane età, per una serie di vicissitudini familiari, in possesso di un ingente patrimonio. Inquieta, ribelle, stravagante, decise di abbandonare gli studi e di recarsi in Europa, sulla scia di numerosi compatrioti, i cosiddetti ‘espatriati’, rappresentanti della ‘Lost Generation’, che vedevano nella più disinvolta società europea una via di fuga dal conformismo e dal moralismo statunitensi. In Europa vi rimase circa vent’anni, facendo la spola tra Londra e Parigi, e frequentando nomi leggendari del panorama artistico dell’epoca. Di tali ambienti divenne presto la regina e investì le sue fortune dedicandosi alla collezione di opere d’arte. Ma collezionò, in un certo senso, anche artisti, divenendo amante di molti di essi, comportandosi da autentica ‘musa inquieta’, come in seguito venne soprannominata. Nel 1941, momentaneamente ritornata negli Stati Uniti, organizzò con la sua collezione la mostra ‘Art of this Century’, diventata presto internazionalmente famosa, in quanto costituiva l’unica raccolta esauriente delle correnti d’avanguardia degli inizi del secolo scorso fino agli anni quaranta. Quando in seguito, nel 1948, espose tale collezione alla Biennale di Venezia, si innamorò della splendida città e vi si stabilì perennemente, acquistando il Palazzo Venier dei Leoni, affacciato sul Canal Grande, e ne fece una vera e propria casa-museo, aperta al pubblico tre giorni alla settimana. E da allora la Guggenheim fu definita, da coloro che la conoscevano e frequentavano, ‘l’ultima dogaressa’. Tuttavia, se Peggy non avesse scritto nel 1946 un libro, ‘Out of this Century’, forse, al di là di qualche aneddoto, non avremmo saputo molto della sua personalità. Il testo è in effetti importante perché ci fa comprendere non solo gli sviluppi artistici dei primi decenni del Novecento ma anche l’evoluzione caratteriale ed esistenziale di una donna indubbiamente fuori dal comune.

Una donna che, già adolescente, dimostra di sopportare a malapena la rigida educazione ricevuta, e tale insofferenza la spinge a frequentare personalità eccentriche, almeno secondo la mentalità corrente dell’epoca, e che la porta a farsi deflorare minorenne da colui che diventerà il suo futuro marito, lo scrittore Laurence Vail. Va detto che molte parti di ‘Out of this Century’ andrebbero prese con il beneficio del dubbio, dal momento che, sin dal principio, la Guggenheim dichiara di avere una pessima memoria e di non ricordare quasi nulla del suo passato (e forse tale ambiguità vale per ogni autobiografia). Ma, stranamente, la musa surrealista dalla memoria corta descrive con dovizia di particolari i primi flirt, le ribellioni, le discussioni con i genitori e anche episodi come la perdita della verginità, al punto che ci si può chiedere cosa sia vero e cosa non lo sia. Sullo sfondo, però, del labirinto narrativo, si intravedono squarci di una società privilegiata, vero e proprio mondo dorato (specie se consideriamo che lo spettro delle prime crisi economiche era alle porte) rispetto al resto degli Stati Uniti. Dopo il matrimonio, Peggy, tra un aneddoto e l’altro, descrive l’ambiente artistico legato al surrealismo e il testo serve a comprendere la nascita e lo sviluppo di tale movimento. I personaggi che si avvicendano nelle pagine del libro sono incredibili: Max Ernst, Salvador Dalì, Man Ray, Yves Tanguy, e così via. Ma non ci sono solo surrealisti. Non esente dal gusto per il pettegolezzo, Peggy ci descrive un James Joyce perennemente ubriaco, un Ezra Pound scontroso, un giovane e timido Samuel Beckett innamorato di Lucia, la figlia pazza di Joyce, e così via. E, dietro la superficie dell’aneddoto curioso, Peggy, in un certo qual modo, si tradisce, rivelando, suo malgrado, personali difetti e idiosincrasie, simpatie ed antipatie. Dimostra di non apprezzare Nora Joyce, la moglie del celebrato autore di ‘Ulysses’ (1922), da lei considerata volgare. Detesta le stravaganze di Dalì e il servilismo della sua compagna Gala. A tratti si lascia sfuggire di non sentirsi attraente, quando ha a che fare con l’amante di Max Ernst, la modella Kiki De Montparnasse. E, più in generale, confessa di non sopportare l’egocentrismo degli artisti e arriva a scrivere che una persona che intende organizzare una mostra con personaggi così pieni di sé dovrebbe essere rinchiusa in manicomio. Ma in ‘Out of this Century’, in effetti, si riscontra una contraddizione che, evidentemente, era parte della sua personalità: la Guggenheim era una donna certamente affascinata dalla trasgressione; ma nello stesso tempo indispettita dalla mancanza di forma che spesso molti artisti rivelavano. E, in seguito, uno scrittore acuto come William Burroughs (che avrà pessimi rapporti con Peggy) dirà che è ridicolo frequentare artisti geniali e fuori dagli schemi e pretendere che si comportino come lord inglesi (la Guggenheim, nei tardi anni sessanta, aveva scacciato da Palazzo Venier dei Leoni il poeta beat Allen Ginsberg e il suo compagno Peter Orlovsky perché quest’ultimo, a tavola, aveva gettato un tovagliolo a Ginsberg invece di porgerglielo normalmente!). Dalla sua autobiografia, inoltre, ricaviamo un altro importante aspetto del suo carattere: la gelosia. Malgrado le sue bizzarrie, Peggy si rivela simile a una donna qualsiasi, sconvolta dai continui tradimenti del marito, pronta a spiarlo, in poche parole, comportandosi come una qualunque moglie frustrata e non come la collezionista disinibita che andava a letto con Max Ernst o, negli anni cinquanta, con Jackson Pollock e altri. Ed era capace di fare dispetti meschini.

Il secondo matrimonio con Max Ernst è significativo. Peggy scrive pagine e pagine sul suo conto, esprimendo tutta l’ammirazione che prova nei confronti dell’artista, ma non risparmiandogli frasi al vetriolo, in particolare quando si addentra nella descrizione della relazione che Ernst avrà con la donna che successivamente sarà la sua nuova compagna, Dorothea Tanning (altra figura celebre del surrealismo), che si presenterà una sera a una festa con i lunghi capelli di color turchese e il seno nudo ricoperto da foto che ritraggono il pittore. Il divorzio e le innumerevoli controversie legali che ne seguiranno sono narrati con una cura maniacale dei dettagli ed è esilarante leggere della causa che Peggy intenterà a Max Ernst per il possesso di alcuni barboncini (aneddoto che sembra uscito da un racconto surrealista!). Tuttavia, al di là di questi aspetti che costituiscono il ritratto di una donna intelligente ma a volte insicura, in  ‘Out of this Century’ si intravedono altri particolari. Il suo lato materno, per esempio. Anche se dei figli parla poco e a volte anche con distacco, si intuisce l’apprensione che, in diversi momenti della sua vita, la Guggenheim prova nei confronti dell’infelice figlia Pegeen, affetta da depressione (e che, anni dopo l’uscita dell’autobiografia, si suiciderà). È qui che si percepisce il lato più umano, oserei dire intimo, di Peggy. E tale umanità è presente nell’ultima parte dell’autobiografia, dedicata a Venezia. Forse le pagine che descrivono le lagune, gli antichi palazzi, l’architettura veneziana, le gondole, sono le più suggestive ed è in questa sezione che la Guggenheim dimostra di possedere notevoli capacità di scrittura (la prima edizione di ‘Out of this Century’ non fu accolta favorevolmente dalla critica, che liquidò l’opera come il passatempo di una ricca viziata capace solo di descrivere cene, feste e storie di sesso e solo in seguito è stata rivalutata).

Malgrado sia ancora oggi ricordata come la donna fotografata da Man Ray che sfoggia assurdi orecchini inventati da Tanguy, avvezza a guidare automobili abbellite da sculture di Giacometti e che si spostava a Venezia su una gondola appositamente costruita per lei, in realtà Peggy Guggenheim ci ha donato, con la sua autobiografia, il ritratto di una donna eccezionale ma spesso fraintesa.

Curiosamente, anche Peggy era capace di fraintendere e non riuscì a comprendere la grandezza di un’altra importante personalità femminile del Novecento, la scrittrice Anais Nin, che scrisse opere surrealiste, e che ancora oggi alcuni ricordano come amante di Henry Miller (senza sapere che l’autore dei ‘Tropici’ era stato influenzato ed aiutato da lei e non viceversa, come molti si ostinano ad affermare, e che per giunta era stata sua amante solo per un breve periodo). Nell’introduzione all’edizione italiana di ‘Out of this Century’, pubblicata con il titolo ‘Una Vita per l’Arte’, lo scrittore Gore Vidal, amico di entrambe, narra di una conversazione avuta con Peggy proprio riguardo ad Anais. Ed è sempre Vidal a rivelarci che la Guggenheim definì in quell’occasione la Nin, ‘una stupida’. Dal canto suo, nemmeno la Nin, nel suo monumentale diario in sei volumi, esprimerà grande simpatia per Peggy, descritta come un’egoista pronta a sostenere solo gli artisti disposti ad adularla (e bisogna aggiungere che, nell’autobiografia della Nin, Peggy Guggenheim viene citata pochissimo, trattata alla stregua di una figura secondaria nell’ambito dell’arte del Novecento). Ma se tale atteggiamento è prova di un carattere difficile come e più di quello di Peggy, il suo diario non è assolutamente il prodotto di una stupida. E ciò mi conduce alla seconda donna da me scelta per questo intervento: Anais Nin, appunto.

Figlia dell’Incesto.

Se Peggy Guggenheim fu a volte fraintesa, lo stesso si può dire per la bellissima Anais Nin, da molti considerata più erotomane che scrittrice (o, peggio ancora, pornografa). Questo a causa della sua vita trasgressiva e della spregiudicatezza sessuale che la caratterizzava. In realtà, fu trascurata anche perché la sua raccolta di racconti, ‘Under A Glass Bell’ (1950), nonché i romanzi ‘The House of Incest’ (1936), ‘Cities of the Interior’ (1959), ‘Ladders to Fire’ (1946), ‘A Spy in the House of Love’ (1954), e altri, non erano di facile leggibilità, influenzati dal surrealismo che non aveva mai veramente catturato l’attenzione dei critici americani e del pubblico statunitense in generale. Ed è curioso notare che i libri a tutt’oggi più letti (e venduti) della Nin sono ‘Delta of Venus’ (1977) e ‘Little Birds’ (1979), due raccolte di racconti pornografici, scritti dalla Nin per motivi economici, su richiesta di un ricco mecenate, e che l’autrice non aveva mai pensato di pubblicare (saranno infatti i suoi editori a stamparli dopo la sua morte, avvenuta nel 1977) e che non rendono giustizia al suo talento di scrittrice.

Esotica, affascinante, la Nin era conosciuta per essere stata l’amante di Henry Miller (e di una delle sue mogli, June), dello psicanalista Otto Rank e di svariati artisti; ma fu un nome di spicco degli ambienti artistici parigini frequentati dai surrealisti. In verità, la sua opera fondamentale è costituita dalle oltre quindicimila pagine del suo diario, scritte in un arco di tempo che va dai primi anni venti fino ai tardi anni sessanta. Per molto tempo, tuttavia, nessuno ne saprà nulla e la Nin non farà altro che pubblicare i suoi romanzi di scarso successo; solo in seguito, però, diventata celebre per i suoi comportamenti scandalosi, si verrà a conoscenza del diario che verrà pubblicato, come ho già scritto, in sei volumi tra il 1966 e il 1976, che narrano la sua vita dal 1931 al 1966 (le sezioni relative agli anni venti sono state omesse). Ovviamente questi sei volumi non sono stati pubblicati integralmente; fu la stessa Nin a selezionare le pagine, tralasciandone diverse per non mettere in imbarazzo persone all’epoca ancora vive. Può anche darsi (e se ne discute ancora al riguardo) che il diario sia stato rimaneggiato dal revisore Gunther Stullmann e peraltro lo scrittore Gore Vidal, come abbiamo visto, amico della Guggenheim (nonché uno degli innumerevoli amanti della Nin), nel suo ‘Palimpsest: A Memoir’ (1995), afferma che Anais tendeva, anche a parecchi anni di distanza, a riscrivere varie pagine dei diari, adattandole al suo mutevole stato d’animo. Anche in questo caso, quindi, l’autobiografia di Anais, come quella della Guggenheim è ambigua; e ci si può legittimamente chiedere dove finisca il ricordo e dove incominci la fiction.

Ci sono però particolari che differenziano l’opera della Nin da quella della Guggenheim. Innanzitutto, lo stile. Pur brillante, la Guggenheim non è assolutamente paragonabile ad Anais Nin. La scrittura di quest’ultima è musicale e poetica, specie nei primi volumi del diario, e, in un certo senso, potrebbe far pensare agli esiti migliori della cosiddetta prosa d’arte. Per giunta, non mancano, naturalmente, influssi surrealisti, suggestioni della psicoanalisi, giochi di parole, influenze dello ‘stream of consciousness’, una miscellanea di stili, insomma, che ben descrivono i meandri della psiche dell’autrice. Effettivamente Anais Nin ricorre spesso alla metafora del labirinto per rappresentare il flusso dei ricordi. Se l’autobiografia della Guggenheim, infine, è ricca di aneddoti e pettegolezzi, non si può dire lo stesso del diario della Nin. Non mancano, certo, pagine dedicate a scrittori, artisti, poeti, amanti; ma il lettore che vorrebbe conoscere particolari piccanti della vita di una donna chiacchierata rimarrebbe deluso. Nel diario, in definitiva, la Nin descrive la sua anima, esprimendo opinioni sull’arte, sul ruolo della donna nella società, sulla psicoanalisi, sull’esistenza in generale. Di tanto in tanto, però, appare a più riprese una figura importante, quella di Joaquin Nin, suo padre. Se si leggono i sei volumi del diario, non si riesce a comprendere molto di lui. Ma la reticenza della Nin è già una forma significativa di confessione: si intuisce che il rapporto con Joaquin non è stato facile e l’argomento non è gradito alla scrittrice. Basandoci sul diario, si sa che il padre, celebre pianista e donnaiolo incallito, aveva abbandonato la famiglia quando Anais era bambina e tale abbandono le aveva provocato un trauma. Effettivamente, Anais, nel diario, esprime tra le righe la sofferenza di una ragazza costretta a crescere priva di guida paterna. Ma, come si scoprirà nel 1992, le cose erano più complicate.

È in quest’anno infatti che viene pubblicato ‘Incest’, libro che costituisce un’altra sezione dei diari, che la Nin, forse comprensibilmente, aveva a suo tempo omesso. In questo volume la Nin scrive del suo incontro con Joaquin, avvenuto quando ormai Anais non è più bambina, ma una bellissima e smaliziata donna già avvezza a fare innumerevoli esperimenti di tipo sessuale. I due si riavvicinano e Anais, ancora piena di rancore, deciderà di sedurre il genitore, per poi vendicarsi abbandonandolo. La cronaca impietosa di questo incesto getta nuova luce sulla figura già discussa della Nin e anche il romanzo surrealista ‘House of Incest’ viene riletto, quindi, con il senno di poi, come metafora di un incesto realmente accaduto.

Anais Nin, dunque, è stata, anche più della Guggenheim, una donna che non ha nascosto quasi nulla di sé e che ha usato la scrittura per esprimere ogni sfaccettatura della sua personalità. E se Peggy era una donna che, malgrado il rigido ambiente di provenienza, amava le stravaganze; e se la Nin fu cresciuta da una madre fervente cattolica e, non curandosi di ciò, visse un’esistenza anticonvenzionale, c’è una terza donna che vorrei citare. Una donna borghese, figlia di facoltosi borghesi, ma che non ha vissuto da borghese, pur non raggiungendo i livelli di trasgressione di Peggy e di Anais. Una donna che, guarda caso, ha incontrato entrambe (nonché numerosi artisti e scrittori). Una donna conosciuta per la sua attività di traduttrice e divulgatrice della letteratura americana e che ha pubblicato la sua autobiografia: la compianta Fernanda Pivano.

Signorina Anticonformista di Buona Famiglia.

Nei tardi anni sessanta, Fernanda Pivano incontra Anais Nin in una libreria di New York. Parlano per un po’, specialmente dei poeti beat, e la Nin si comporta, come dichiara la stessa Pivano (rammaricata per il fatto di non avere avuto in seguito occasione di rivederla), con estrema simpatia e cordialità. Anni dopo, in compagnia del marito, l’artista Ettore Sottsass, la Pivano conosce la celebre Peggy Guggenheim, affascinata dai quadri di quest’ultimo. Gli chiede un quadro in regalo ma, sfortunatamente, tale quadro è il preferito di Fernanda che impedisce al consorte di donarlo a Peggy. Si rivelerà un grave errore poiché la Guggenheim si offende e non si occuperà più di lui. Questi sono solo due degli aneddoti che Fernanda Pivano ha raccontato nel corso della sua incessante attività letteraria. Allieva di Cesare Pavese, grazie a lui si innamora della letteratura americana (in un periodo in cui il fascismo aveva proibito le opere degli scrittori statunitensi) e, in particolare, di Fitzgerald e di Hemingway. Sarà proprio il suo contratto per la traduzione di ‘Farewell to Arms’ (1929) per conto dell’Einaudi a metterla nei guai con i nazisti che spadroneggiano in Italia. E solo dopo la guerra, Nanda, come è affettuosamente chiamata dagli amici e dagli estimatori, riesce ad incontrare il maturo scrittore americano, dando vita a un sodalizio che si protrarrà fino alla tragica morte dell’autore. E negli anni cinquanta, oltre alle traduzioni di Hemingway, Faulkner o Dos Passos, Fernanda Pivano sarà la prima in Italia a far conoscere la ‘Beat Generation’, movimento che allora nessuno comprendeva; e da quel momento il suo nome sarà indissolubilmente legato a quello dei beat. Per anni frequenterà un tormentato e alcolizzato Kerouac, un Allen Ginsberg sotto l’effetto degli allucinogeni, un Gregory Corso tormentato da gravi problemi di droga, tanto che ci si potrebbe chiedere, ma cos’ha a che spartire una signora borghese con personaggi di questo genere?

Delle sue origini borghesi Fernanda Pivano, nel primo volume del suo diario, non fa mistero. In un certo senso, rivendica l’educazione da ricca signorina di buona famiglia impartitale da un padre autorevole e una madre tradizionalista, consapevole del suo ruolo di moglie, nella Genova dei primi del Novecento. Ma, al di là di ciò, sin da bambina la Pivano rivela quell’anticonformismo che, a conti fatti, la porterà, crescendo, a frequentare e a sostenere artisti stravaganti e sempre attaccati dall’establishment dell’epoca. La sua insaziabile curiosità l’aiuterà a comprendere la grandezza e la validità di determinate esperienze artistiche. Come nel caso della Guggenhein e della Nin, anche il suo diario è però fonte di perplessità; nel senso che la Pivano, nelle sue pagine, rivela una maniacale tendenza a descrivere infinitesimali dettagli relativi alle pietanze gustate da Hemingway, all’arredamento delle abitazioni dei vari scrittori, e così via. Potremmo quindi pensare che sia stato scritto con l’ausilio di appunti conservati nel corso degli anni; se non fosse che già nel suo ‘Amici Scrittori’ (1995), la Pivano iniziava il libro affermando di non aver mai posseduto un diario poiché un giorno, negli anni cinquanta, mentre si accingeva a redigerne uno, fu sarcasticamente rimproverata da Eugenio Montale perché ‘troppo giovane per scrivere un diario’. Qual è la verità, allora? La Pivano ha una memoria prodigiosa? O forse, probabilmente, i ricordi sono trasfigurati da una notevole capacità inventiva e narrativa?

Sia come sia, il diario della Pivano è avvincente. Partendo dall’infanzia nella Genova umbertina, con i primi interessi artistici, rappresentati soprattutto dalle lezioni di pianoforte, la Pivano ci descrive la sua vita piena di vicissitudini, non tutte allegre. L’orrore della guerra è ricorrente nelle pagine dell’opera; in particolare la tragedia del periodo fascista e dell’alleanza con i nazisti è espressa dalla Pivano con grande intensità. E sono forse questi orrori a spingerla verso il pacifismo, caratteristica che la contraddistinguerà per tutta la vita, e che la porterà a sostenere in seguito la rivoluzione non violenta dei suoi amici beat. Nel diario, comunque, la Pivano non descrive solo l’evoluzione della sua personalità, ma anche i mutamenti della società italiana del Novecento, dalla relativa tranquillità dei primi anni del secolo, alla dittatura del ventennio, agli anni difficili della ricostruzione di un paese che ha perso la seconda guerra mondiale, fino al boom economico degli anni sessanta. Lo stesso vale per la società americana che la Pivano ha avuto la fortuna di osservare in prima persona, partendo dal suo primo soggiorno statunitense negli anni cinquanta, in un paese che già iniziava ad essere sconvolto dalle trasgressioni beat. Con l’evolversi dell’America, si evolve anche la stessa autrice. Pur rimanendo sempre una signora borghese, passa in maniera disinvolta dai discorsi sofisticati con Hemingway alle sfrenate serate parigine con Ginsberg, Corso e Orlovsky, fino ai concerti di Bob Dylan, alla Londra dei Beatles, agli happening della generazione hippy a San Francisco in piena era ‘Flower Power’. In ogni occasione, la Pivano non dà mai giudizi; anzi, cerca di comprendere gli atteggiamenti spesso sopra le righe degli artisti da lei frequentati, peraltro riuscendoci. Non mancano pungenti aneddoti sui funzionari delle case editrice nostrane, non sempre pronte a capire la validità di determinati scrittori, o del mondo accademico italiano (le università, è noto, non sono mai andate a genio alla Pivano). Il diario ci presenta una galleria di personaggi celeberrimi della cultura e dell’arte, ma sempre con una particolare attenzione al lato umano: il tormentato Cesare Pavese, perseguitato dai fascisti, che le farà leggere Edgar Lee Masters, facendole comprendere la differenza tra letteratura americana e letteratura inglese; l’ironia sarcastica di William Faulkner, ospite nella villa di un’aristocratica; la disperazione di Tennesse Williams, il più grande autore teatrale americano del Novecento; i tormenti di Ernest Hemingway, da lei affettuosamente chiamato ‘Papa’; la gentilezza di Alice B. Toklas, segretaria e compagna di Gertrude Stein, morta in miseria in una fredda casa parigina; gli sbalzi di umore di Jack Kerouac; la tranquillità quasi zen di Henry Miller; la calma serena di Allen Ginsberg; la freddezza scostante di William Burroughs; le terribili sfuriate di un irrefrenabile Gregory Corso; l’ostentata sicurezza di sé di Norman Mailer; la severità e la diffidenza di Ezra Pound. Ma questi sono solo alcuni dei nomi citati e analizzati nell’autobiografia. Ma ci sono anche altri personaggi che hanno rivestito un’importanza fondamentale nella sua vita. Innanzitutto, il padre di Nanda, donnaiolo e grande uomo di cultura, letteralmente idolatrato dalla figlia; il fratello Franco, morto a causa di una grave malattia; la madre di Nanda, che lentamente muore di malinconia, segnata dalla perdita del figlio; e infine il geniale artista Ettore Sottsass, suo marito, l’uomo che però la farà soffrire con i suoi tradimenti. Le pagine riguardanti il lento deteriorarsi del matrimonio sono le più intense e autentiche e in queste sezioni del diario la Pivano si confessa, senz’altro in maniera più estrema e sincera della Nin o della Guggenheim; così come autentiche sono le pagine dedicate agli straordinari viaggi compiuti dalla coppia, in posti allora ancora esotici, sulla scia degli instancabili beat che viaggiavano in continuazione. Le descrizioni della Valle dei Re a Luxor, per esempio; di Bangkok, Singapore, Bali, Samoa, Tahiti e delle zone più inaccessibili del Marocco, dove la Pivano e Sottsass cercano di emulare la celebre coppia di coniugi scrittori Paul e Jane Bowles, possono, a mio avviso, essere accostate alle migliori pagine degli scrittori anglosassoni di viaggi, forse modelli  inconsapevoli della Pivano.

Anche se, lo ripeto, Peggy Guggenheim, Anais Nin e Fernanda Pivano, malgrado le analogie, restano comunque donne diverse tra loro, possono essere messe in relazione per la sincerità che le ha spinte a dire tutto (o quasi) di sé, con una schiettezza superiore a quella di qualsiasi scrittore uomo (ma di questo si potrebbe discutere a lungo) e senz’altro possono essere annoverate tra coloro che hanno avuto il coraggio di addentrarsi nel labirinto intricato della propria anima.

BIBLIOGRAFIA

Peggy Guggenheim, Out of this Century, Universe Books, New York, 1946; trad.it., 1998, Una Vita per l’Arte, Rizzoli, Milano.

Gore Vidal, Palimpsest: A Memoir, Penguin., New York, 1995; trad.it., 2000, Palinsesto, Fazi, Roma.

Anais Nin, The Diary of Anais Nin 1931-1934, Harvest Books,  Washington, 1966; trad.it., 2001, Diario I – 1931-1934, Bompiani, Milano.

Anais Nin, The Diary of Anais Nin 1934-1939, Harvest Books, Washington, 1967; trad.it., 2001, Diario II – 1934-1939, Bompiani, Milano.

Anais Nin, The Diary of Anais Nin 1939-1944, Harvest Books, Washington, 1969; trad.it., 2001, Diario III – 1939-1944, Bompiani, Milano.

Anais Nin, The Diary of Anais Nin 1944-1947, Harvest Books, Washington, 1971; trad.it., 2001, Diario IV – 1944-1947, Bompiani, Milano.

Anais Nin, The Diary of Anais Nin 1947-1955, Harvest Books, Washington, 1974; trad.it., 2001, Diario V – 1947-1955, Bompiani, Milano.

Anais Nin, The Diary of Anais Nin 1955-1966, Harvest Books, Washington, 1976; trad.it., 2001, Diario VI – 1955-1966, Bompiani, Milano.

Fernanda Pivano, Amici Scrittori, Mondadori, Milano, 1995.

Fernanda Pivano, Diari 1917, 1973, Bompiani, Milano, 2008.


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