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I Lunedì dell’Arcipelago : Attraverso l’estate

Categoria: Assaggi, suoni, visioni e letture, I lunedì dell'Arcipelago
Postato da: Faust Cornelius Mob

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Torna I Lunedì dell’Arcipelago, la vetrina del meglio di Arcipelago Anonima, e lo fa in grande stile con Attraverso l’Estate, racconto di una delle colonne portanti di Anonima : il grande (in tutti i sensi) Stefano Cardinali.

 

 

 

In fondo poteva finire anche peggio. La ruota anteriore era da cambiare e questo avrebbe comportato una lunga serie di paternali più per la bici che per i graffi e le sbucciature su braccia e ginocchia.

    Così quella mattina mentre con Ernesto facevano ripartire il mangiadischi ascoltando per la centesima volta i Rokes e i Corvi, quando il cugino scoprì che a quasi tredici anni ancora non sapeva andare in bicicletta, cominciò a canzonarlo dandogli del ”cittadino”. Lui si sentì umiliato e lo aggredì. Prima lo colpì con una serie di pugni e infine, alla reazione di Ernesto, lo mise con le spalle a terra tenendolo bloccato anche con un ginocchio. E avrebbe pure ricominciato a menarlo se non fosse intervenuta la zia Edda.

    Fabrizio sapeva bene che suo cugino aveva ragione, intanto perché era nato e viveva a Roma e poi perché era pure figlio unico di una mamma e un papà ansiosi da togliere il respiro. Per questo non era mai salito in bicicletta. Per fortuna tra pochi giorni sarebbe nato il fratellino e forse i suoi avrebbero dedicato a lui tutte le attenzioni che finora lo avevano oppresso. Anzi qualcosa stava già cambiando: in attesa del lieto evento lo avevano mandato a trascorrere l’estate in casa di parenti che vedeva due volte l’anno, ospite in un podere immerso tra campi di grano appena tagliato.  

    Perciò, dopo la presa in giro del cugino, Fabrizio aveva passato tutto il pomeriggio in bicicletta, avanti e indietro nel piazzale davanti al casolare, cercando un equilibrio sconosciuto che all’inizio sembrava irraggiungibile. Poi, lentamente, il primo giro di pedali senza mettere i piedi a terra, poi altri tentativi falliti e ancora dieci metri che diventavano venti, pedalando con quella stabilità sempre più vicina. Infine l’equilibrio, la consapevolezza di saper partire, di arrivare dove voleva e la gioia di saper curvare senza scendere.

    Poco prima di sera Fabrizio si sentiva talmente sicuro che si allontanò lungo la strada che costeggiava un piccolo corso d’acqua. Era eccitato dalla nuova conquista e decise di attraversare il rigagnolo sfruttando la pendenza della sponda. Di certo non sarebbe stato quel minuscolo guado a fermare la velocità del suo mezzo oramai addomesticato, a interrompere la sua impresa. Prese una breve rincorsa e si buttò per la discesa ma al contatto con l’acqua la ruota davanti si incagliò facendolo impennare. Tutta la velocità accumulata scaraventò Fabrizio addosso alla sponda opposta. Il cittadino Fabrizio, dominatore in un solo pomeriggio delle due ruote, ciclista quasi senza macchia e - incoscientemente - senza paura, attraversatore di fiumi, ruscelli, canali e di qualsivoglia corso d’acqua, non poteva sapere che in fondo a quelle sponde costruite dall’uomo, sotto quei pochi centimetri d’acqua estiva si nascondeva un altro incavo che avrebbe bloccato la sua ruota.

    Glielo spiegò la sera a cena lo zio Gino, il nonno di Ernesto, che prima però lo redarguì per bene. In realtà Fabrizio comprese poco, soltanto che quel piccolo fossato nel canale più grande si chiamava savanella e che il vecchio era arrabbiato perché il cerchio era da buttare. La lingua dello zio era, sì, fatta di parole italiane alle quali spesso veniva mozzata la vocale finale ma anche di tante espressioni che lui non riusciva a capire e per le quali, vista la situazione, aveva evitato di chiedere un supplemento di spiegazione. Però una cosa l’aveva compresa bene: quel corso d’acqua si chiamava Canale Mussolini e questo non lo avrebbe mai dimenticato.

    Nei giorni seguenti, scontata la punizione, a Fabrizio fu permesso di riprendere la bicicletta. Lui giurò che avrebbe attraversato il canale solo sui ponti e cominciò le sue esplorazioni dei dintorni. Visitava posti sempre diversi arrivando ogni giorno più lontano. I monti dell’entroterra lo aiutavano ad orientarsi con quel paese che si chiamava Norma a fare per lui da stella polare.

    Poi un giorno conobbe Brunella.

    A dispetto del nome Brunella era rossa di capelli e aveva gli occhi verdi. Era bellissima. Viveva a Iesolo e aveva appena finito gli esami di terza media. La incontrò lungo un viottolo, con una gomma della bici a terra. Fabrizio provò a gonfiarla con la sua pompa e questo permise alla ragazzina di pedalare per duecento metri. Andarono avanti così per altre quattro, cinque volte fino a quando lei scorse il suo podere in lontananza. Fabrizio la scortò fino a destinazione e salutandola le diede appuntamento al giorno seguente.

    Dal momento della foratura passarono assieme tutti i pomeriggi, anche il sabato e la domenica. Lui le raccontò della sua passione per la musica beat e le fece conoscere l’Equipe 84 e un giovane cantante che si chiamava Lucio Battisti. Lei, che trascorreva ogni estate in quel podere, gli rivelò i segreti di quella terra: gli mostrò i piccoli ponti che oltrepassavano la fitta rete di canali, gli svelò le scorciatoie per attraversare le diverse proprietà e gli indicò ogni tipo di coltivazione, gli insegnò a riconoscere le tane di piccoli animali, le buche delle talpe e i nidi dei numerosi uccelli nascosti tra i rami. Lui le parlò delle sue partite di pallone in parrocchia giocate all’insaputa dei genitori che credevano che andasse a servire messa. Lei gli raccontò di come quella pianura fosse stata rubata alle acque e alla malaria, poi svelò le origini della sua famiglia e del nonno che dal Veneto aveva affrontato l’avventura più difficile lasciando il paese per andare a coltivare quella pianura malsana e di sua mamma che innamoratasi di un veneto del litorale era tornata a vivere nella terra d’origine. Fabrizio viveva in funzione di quei pomeriggi, dei racconti e della vicinanza della sua amica. E se ne innamorò.

    Spesso fu sul punto di dimostrarle in modo aperto il suo sentimento. Quando erano stanchi di pedalare si stendevano sull’erba all’ombra di un albero o lungo le sponde del Canale Mussolini con le teste vicine e le dita che si sfioravano. Fabrizio fu più volte tentato di accarezzarla, di prenderle la mano, di baciarla ma rimandava sempre sperando in un’occasione più propizia. Era frenato dalla bellezza della sua amica e da quell’anno di differenza che lo faceva sentire inadeguato. Stava bene insieme a quella ragazza rossa piena di lentiggini e non voleva rovinare tutto.

    Poi da Roma giunse la notizia che era nata Matilde, la sorellina. Per lui fu una delusione. Da quando aveva saputo che la mamma era incinta aveva sperato in un fratellino complice a cui insegnare i segreti del pallone o del meccano. Lo sconforto però fu mitigato dalla gioia per i pomeriggi che avrebbe passato ancora con Brunella. Invece, dopo neanche dieci giorni dalla nascita della bimba, Fabrizio fu richiamato a Roma. Una sera arrivò la telefonata del padre che lo avrebbe aspettato per il giorno dopo.

    Il treno partiva alle 11,45 per Roma da Littoria Scalo (come la chiamava lo zio Gino). Fabrizio si svegliò alle sette e mezza, prese la bicicletta e pedalò come un forsennato verso il podere di Brunella. La incontrò a poche centinaia di metri dalla sua abitazione insieme ad una cugina più grande. Salutò in maniera educata e spiegò che la sua vacanza era finita e che stava tornando a Roma. Mentre raccontava della sua immediata e improvvisa partenza vide gli occhi della sua amica bagnarsi di lacrime. Per non piangere anche lui le mise in mano il foglietto sul quale aveva scritto il proprio indirizzo e scappò via.

    Tornò al podere giusto in tempo per prendersi l’ultimo rimbrotto dalla zia che con lui avrebbe fatto il viaggio in treno e che non trovandolo nel proprio letto aveva pensato che fosse scappato. Furono accompagnati allo Scalo dal vecchio zio sulla cinquecento celeste. Come un condannato a morte espresse il suo ultimo desiderio e gli fu permesso di percorrere i pochi chilometri con la capote aperta.

    Il resto dell’estate fu tutto occupato dal dolore per il distacco dalla sua amica. Inoltre Matilde aveva cominciato a dettare i propri tempi alla famiglia svegliandosi ogni tre ore di notte e strillando per la fame. Per Fabrizio era un inferno.

    All’inizio di settembre, arrivò una cartolina di Brunella. Nelle poche righe a disposizione gli spiegava che era tornata a Iesolo, gli comunicava l’indirizzo e in un minuscolo post scriptum gli dava un’indicazione: look under the stamps. L’inglese di Fabrizio non era molto brillante ma impiegò poco per capire. Mise la cartolina in una piccola ciotola d’acqua tiepida. Dopo poco i francobolli staccati svelarono il messaggio segreto: TI AMO! Così, scritto in stampatello e la penna ripassata più volte.

    Rimpianto e gioia si sovrapposero, l’uno tentando di scalzare l’altra. Fabrizio ripensò all’amore non dichiarato e alle frasi che da oggi poteva scriverle. Fantasticò sui baci che si sarebbero scambiati e a quelli invece perduti nelle tante ore passate insieme. Immaginò il suo primo, lungo viaggio a Iesolo per passare l’estate con la sua ragazza dai colori del tramonto.

    Lo scambio epistolare continuò per un paio di mesi. Poi a metà novembre Brunella scrisse un breve messaggio in cui gli comunicava che la mamma aveva trovato le sue lettere e che le aveva giudicate “sconvenienti”. Quella perciò sarebbe stata l’ultima volta che gli scriveva.

    A Fabrizio sembrò di impazzire. Quel rapporto era diventato una ragione per affrontare l’ultimo anno e gli esami della medie, per sopportare Matilde. Era la sicurezza che ogni due settimane poteva incontrare il suo amore grazie ai suoi racconti. Di certo non sarebbe stata la fermezza di un genitore a far finire quel sentimento lasciandolo solo contro le prove più dure. Alla fine decise di scrivere alla mamma di Brunella. Le sue ragioni sarebbero state così oneste e convincenti da farle cambiare idea. Impiegò quasi una settimana a redigere la lettera. Premise che lui era un ragazzo serio e di buona famiglia e che proprio non riusciva a capire cosa ci fosse di sconveniente nel confessare l’amore che provava per sua figlia. Le spiegò perché secondo lui quelle innocenti e sincere lettere non potevano turbare la sensibilità della ragazza e si disse disposto anche a presentarsi alla famiglia, se lei lo avesse richiesto.

    La risposta della mamma non tardò. In maniera gentile - in alcuni tratti materna - gli rispose che non metteva in dubbio la natura del suo sentimento ma ribadiva fermamente che sua figlia non doveva concedersi distrazioni in un momento così delicato della crescita e della sua formazione scolastica. Alla fine lo ringraziava per averle chiesto quel chiarimento e si diceva sicura che, vista la sua giovane età e distratto da altri interessi, presto avrebbe dimenticato quella storia.

    Come nel tentativo del guado a cavallo della bici Fabrizio si ritrovò disarcionato, sbattuto a terra da un ostacolo imprevisto. Però anche stavolta il suo ottimismo gli arrivò in soccorso cercando di cogliere solo il lato bello della vicenda. In fondo l’estate appena trascorsa non era affatto da buttare. Qualcosa in lui era cambiato: grazie alla bici aveva imparato ad essere meno “cittadino”, aveva conosciuto Brunella e le storie sui canali costruiti dall’uomo per domare quella terra, sugli eucalyptus che la difendevano dai venti e ne drenavano l’acqua. Verso di lei aveva per la prima volta provato l’amore, l’aveva praticato (anche se soltanto in maniera epistolare) e per difenderlo aveva affrontato la prova più dura: confrontarsi con un adulto per far valere le proprie ragioni. Purtroppo ne era stato privato ma le sue esperienze sarebbero rimaste, niente le avrebbe cancellate. Si sentiva più forte e consapevole di aver fatto un grande passo. Adesso però era tempo di soffrire per quel distacco ingiusto e violento.

    Poi, se la madre di Brunella era stata sincera, presto il tempo avrebbe guarito il suo dolore.

   

 

 

giugno 2011

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