Anonima scrittori


Il Nobel per la Letteratura a Mo Yan - Cantastorie (Pt.1)

Categoria: Assaggi, suoni, visioni e letture, Eventi, Interpretazioni, Narrazioni, Sulla letteratura
Postato da: zaphod

[Ieri è stato consegnato il Nobel per la Letteratura 2012 a Mo Yan. Il testo della tradizionale prolusione, intitolata Storytellers, con cui il vincitore accetta il premio è da qualche giorno disponibile in rete in parecchie lingue tranne l'italiano. Massimiliano Lanzidei si è permesso di  tradurlo  (dalla versione inglese a cura di Howard Goldblatt) a beneficio degli utenti del sito dell'Anonima Scrittori. In questa prima parte lo scrittore cinese ripercorre le tappe fondamentali della sua vita fino agli inizi della sua carriera di scrittore. La versione originale è consultabile a questo link. Sul sito del Premio c'è anche il video della conferenza, in cinese. ]

[Nota del Traduttore (che non è un traduttore): la colpa è tutta della persona che si cela dietro l'account twitter di @einaudieditore, è stato lui (o lei) a incuriosirmi su questo Premio Nobel che stava per essere assegnato un paio di mesi fa. Io Mo Yan non lo conoscevo, però poi ho comprato Le sei reincarnazioni di Ximen Nao e lo sto consigliando a tutti, pure se non ho ancora finito di leggerlo. E sarebbe finita lì se l'altro giorno non avesse continuato accennando al dibattito in corso sul discorso di Mo Yan. "Dove si può leggere?" chiedo. "Qua, in inglese," risponde lui. Leggo e mi rendo conto che i temi sono quelli che possono interessare i frequentatori del sito anonimo, che però l'inglese non lo sanno tutti e che già qualcuno sui social chiede se in italiano si trova. Allora ci provo e trascrivo la prima parte qui presente, poi vado avanti. Ci sono cose (i titoli dei libri tradotti in italiano) che non ho avuto il tempo di verificare, altre che mi sono sicuramente sfuggite. Grazie, comunque, dell'attenzione.]

CANTASTORIE - MO YAN

Esimi membri dell’Accademia Svedese, Signore e Signori:

Immagino che tutti qui abbiano avuto almeno una conoscenza superficiale – tramite il mezzo televisivo o Internet – della lontana cittadina di Gaomi nella Cina nord-orientale. Potreste aver visto mio padre, ormai novantenne, o i miei fratelli, mia sorella, mia moglie e mia figlia, e anche mia nipote, che adesso ha un anno e quattro mesi. La persona che in questo momento però è più presente nella mia mente, mia madre, non la potete vedere. Molti hanno potuto condividere l’onore per la vittoria di questo premio, tutti tranne lei.

Mia madre è nata nel 1922 e morta nel 1994. L’abbiamo sepolta in un pescheto, a oriente del nostro villaggio. L’anno scorso abbiamo dovuto spostare la tomba per fare posto a una nuova linea ferroviaria. Dopo aver scavato ci siamo accorti che la bara era marcita e che il suo corpo si era fuso con la terra intorno. Così abbiamo preso un po’ di quella terra, come atto simbolico, e l’abbiamo portata nel luogo della nuova sepoltura. È stato allora che ho acquisito la consapevolezza che mia madre era diventata parte della terra, e che quando parlavo alla madre terra in realtà mi rivolgevo a mia madre.

Ero il figlio più giovane.

Il mio primo ricordo è di quando portavo il nostro unico thermos alla mensa pubblica per prendere acqua potabile. Ero indebolito dalla fame, lo lasciai cadere e si ruppe. Spaventato, restai nascosto tutto il giorno in un pagliaio. Solo verso sera – udendo mia madre chiamare il mio nome – strisciai fuori dal mio nascondiglio, pronto a ricevere la mia punizione. Non mi picchiò, non mi sgridò neppure, mi passò solo la mano sulla testa con un sospiro.

Il mio ricordo più doloroso invece riguarda le uscite nei campi comuni a spigolare il grano. Le spigolatrici scappavano terrorizzate quando intravedevano il guardiano, ma mia madre, che aveva i piedi fasciati, non poteva correre e quella volta lui la raggiunse e la spinse a terra. Era un omone, ci confiscò le spighe e se ne andò fischiettando. Non potrò mai scordare lo sguardo senza speranza di mia madre, il labbro rotto sanguinante. Anni dopo, incontrando al mercato il guardiano, ormai un vecchio dai capelli grigi, mia madre dovette bloccarmi per impedirmi di vendicarla.

“Figlio,” mi disse, “l’uomo che mi ha colpito e quest’uomo non sono la stessa persona.”

Il mio ricordo più vivido riguarda il giorno della Festa della Luna, era mezzogiorno, uno di quei rari giorni in cui si mangiavano jiaozi, una scodella a testa. Mentre stavamo mangiando si era presentato alla nostra porta un mendicante anziano. Cercai di liquidarlo con una mezza scodella di patate dolci, ma lui reagì in malo modo: “Sono una persona anziana,” protestò, “voi banchettate con jiaozi e a me rifilate le patate dolci, come potete essere così senza cuore?” Io risposi per le rime: “Grasso che cola se riusciamo a mangiare jiaozi un paio di volte in un anno, a malapena riusciamo a gustarne il sapore, e proprio oggi vi presentate qui. Dovreste ringraziare per quello che vi stiamo dando, e se non vi vanno bene le patate dolci potete anche sparire subito!” Mia madre prima mi riprese e poi svuotò la sua mezza ciotola di jiaozi in quella del mendicante.

Il ricordo che più mi provoca rimorso invece riguarda mia madre che vendeva cavoli al mercato. Un giorno, prima di andare a scuola, caricai sul prezzo per un cliente un jiao di troppo – non mi ricordo se intenzionalmente o no – e la sera trovai mia madre in lacrime. Non mi sgridò, disse semplicemente: “Figlio, oggi hai messo tua madre in imbarazzo.”

Mamma contrasse una seria malattia ai polmoni quando ero adolescente. La fame, la malattia e il troppo lavoro rendevano le cose veramente difficili per noi. Il futuro sembrava piuttosto lugubre e non avevo delle buone sensazioni sull’avvenire. Avevo paura che lei se ne potesse andare. Ogni giorno la prima cosa che facevo rientrando in casa dal lavoro era chiamarla. Sentire la sua voce mi apriva il cuore. Quando non la sentivo entravo nel panico e la cercavo dappertutto. Un giorno che non riuscii a trovarla da nessuna parte mi sedetti in cortile e piansi come un bambino. Mi trovò così quando rientrò con una fascina sulle spalle. Non potevo dirle perché stavo piangendo, di cosa avevo paura, ma lei lo sapeva e mi disse: ”Figlio, non ti preoccupare può non esserci gioia nella mia vita, ma non vi lascerò finché il Dio delle Tenebre non mi chiamerà a sé.”

Ero nato brutto. Gli abitanti del villaggio spesso mi ridevano in faccia e i bulli a scuola mi picchiavano. Tornavo a casa piangendo e mia madre mi consolava: “Non sei brutto, figlio. Hai un naso e due occhi, e non c’è niente che non va con le tue gambe e le tue braccia, quindi perché dovresti essere brutto? Se hai il cuore buono e ti comporti a dovere quello che viene considerato brutto diventa bello”. In seguito – quando andai in città – trovai persone educate che mi ridevano dietro le spalle, e a volte davanti; quando ricordavo le parole di mia madre offrivo tranquillamente le mie scuse.

Lei era analfabeta e teneva in grande considerazione le persone che sapevano leggere. Eravamo così poveri che spesso non sapevamo da dove sarebbe arrivato il nostro pasto seguente, ma non mi ha mai negato un libro o qualcosa con cui scrivere. Era una grande lavoratrice, non vedeva di buon occhio i bambini pigri, ma finché mi vedeva con il naso infilato in un libro potevo anche svicolare i lavori domestici.

Una volta al mercato arrivò un cantastorie e io sgattaiolai per ascoltarlo. Lei era arrabbiata con me perché avevo saltato le faccende domestiche, ma quella sera – mentre cuciva pezze di tessuto alla luce della lampada a kerosene – non potei fare a meno di raccontare le storie che avevo ascoltato al mercato. All’inizio mi ascoltò infastidita, ai suoi occhi i cantastorie professionisti erano imbonitori di dubbi costumi, e dalle loro bocche non poteva uscire niente di buono. Ma piano piano fu catturata dal mio racconto e da quella volta in poi non mi assegnò più compiti il giorno del mercato. Era un permesso tacito di andare ad ascoltare nuove storie. Storie che poi – per mettere a prova la mia memoria ma anche per ripagarla della sua gentilezza – le riraccontavo con dovizia di particolari.

Dopo un po’ anche raccontare le storie di qualcun altro non mi dava grandi soddisfazioni e iniziai ad arricchirle. Dicevo cose che sapevo potessero farle piacere, a volte cambiavo anche i finali delle storie, e alla fine il mio pubblico era composto anche dalle mie sorelle più grandi, dalle mie zie e spesso c’era anche mia nonna materna. A volte, dopo aver ascoltato una delle mie storie, mia madre chiedeva, a bassa voce, come parlando a sé stessa: “Cosa sarà di te quando crescerai, figlio? Farai delle chiacchiere per vivere, un giorno?”

Sapevo di cosa era preoccupata. I ragazzi loquaci non erano ben visti nel nostro villaggio perché potevano mettersi nei guai, o metterci le proprie famiglie. C’è un po’ di me da giovane nel ragazzo loquace che entra in conflitto con i suoi compaesani nella mia storia “Tori”. Mia madre mi avvertiva di non parlare troppo, mi voleva taciturno, dolce e controllato. Invece ero in possesso di una pericolosa combinazione di abilità retorica e del potente desiderio che ne derivava. La mia capacità di raccontare storie la divertiva e preoccupava allo stesso tempo.

Un proverbio dice che “è più facile cambiare il corso di un fiume che la natura di un uomo. A dispetto degli sforzi dei miei genitori il mio naturale desiderio di parlare non venne mai meno e questo rende il mio nome – Mo Yan significa “Non Parla” – un espressione di  autoironica presa in giro.

Dopo aver finito le elementari ero troppo magro per i lavori pesanti così il mio compito fu portare al pascolo il bestiame lungo le rive del fiume. Vedere i miei vecchi compagni di classe giocare nel cortile della scuola mentre facevo uscire gli animali dal cancello mi rendeva triste e mi rese consapevole di quanto sia duro – anche per un bambino – lasciare il gruppo.

Lasciavo liberi gli animali di pascolare sulla riva del fiume sotto un cielo blu come l’oceano e su una terra tappezzata di verde fin dove l’occhio poteva arrivare. Nessun uomo, nessun suono umano, nient’altro che il richiamo degli uccelli sopra di me. Ero solo, terribilmente solo; e il mio cuore era vuoto. A volte mi sdraiavo nell’erba a guardare le nuvole galleggiare e dare vita a forme fantasiose. Quella parte del paese è famosa per le storie di volpi che si trasformano in giovani donne e io fantasticavo dell’arrivo di una volpe-ridiventata-donna per aiutarmi ad accudire gli animali. Non è mai arrivata. Una volta, però, una volpe rosso brillante balzò fuori dal cespuglio davanti a me e mi si infilò tra le gambe facendomi cadere. Rimasi a terra, tremante, a lungo, anche dopo che la volpe era sparita. Qualche volta mi inginocchiavo davanti alle vacche per fissare quegli occhi così blu, occhi in cui vedevo il mio riflesso. Oppure dialogavo con gli uccelli nel cielo, imitando le loro strida, mentre altre volte rivolgevo le mie speranze e i miei desideri verso un albero. Ma gli uccelli mi ignoravano, e anche gli alberi. Anni dopo, diventato romanziere, ho raccontato queste fantasie nelle mie storie. La gente spesso mi bombarda di complimenti per la mia vivida immaginazione, e gli amanti della letteratura mi chiedono di svelare il segreto per sviluppare una fantasia così ricca. La mia unica risposta è un sorrisetto smorto.

Il nostro maestro Tao, Laozi, lo spiega meglio: “La fortuna dipende dalla sfortuna. La sfortuna è nascosta nella fortuna.” Ho lasciato la scuola da bambino, spesso ero affamato, ero sempre solo e non avevo libri da leggere. Proprio per queste ragioni – come per Shen Congwen scrittore della generazione precedente alla mia – ho iniziato presto a leggere il grande libro della vita. La mia esperienza di ascolto dei cantastorie al mercato è solo una delle pagine di quel libro.

Lasciata la scuola fui gettato nello scomodo mondo degli adulti, dove iniziai il lungo viaggio di apprendimento basato sull’ascolto. Duecento anni prima, uno dei più grandi cantastorie di tutti i tempi – Pu Songling – viveva vicino dove sono cresciuto e dove molti altri, come me, continuavano la tradizione che lui aveva perfezionato. Dovunque mi trovassi – al lavoro nei campi per la comune, nelle stalle, sul kang riscaldato dei miei nonni, persino sui carri trainati da buoi, ribalzando e oscillando lungo la strada – le mie orecchie si riempivano di storie del soprannaturale, avventure storiche, aneddoti strani e affascinanti, che andavano a unirsi all’ambiente naturale e alle storie familiari e tutto insieme andava a creare il mondo potente della mia immaginazione.

Ma neanche nei miei sogni più selvaggi avrei potuto pensare che un giorno sarebbe stato materiale per i miei racconti, ero solo un ragazzo che amava le storie, infatuato delle cose che mi raccontavano. All’epoca ero, senza dubbio, un teista, credevo che in ogni cosa albergasse un’anima. Mi fermavo per porgere i miei rispetti a un vecchio albero; se vedevo un uccello ero sicuro potesse diventare umano quando avesse voluto; e sospettavo che ogni straniero in cui mi imbattevo potesse essere una belva trasformata. La notte, mentre tornavo a casa dopo aver fatto calcolare e segnare i punti lavoro, ero perseguitato da orribili timori così cantavo a squarciagola mentre correvo lungo la strada, per farmi coraggio. La mia voce, che a quell’età stava iniziando a cambiare, produceva squittii irritanti che stridevano nelle orecchie dei miei compaesani.

Ho passato i primi ventuno anni della mia vita in quel villaggio, non allontanandomi mai più della distanza necessaria per coprire il viaggio in treno fino a  Qingdao, dove mi persi tra enormi cumuli di tronchi in una fabbrica di legname. Quando mia madre mi chiese cosa avevo visto a Qingdao, risposi tristemente che avevo visto solo cumuli di tronchi. Ma quel viaggio mi aveva risvegliato il desiderio di lasciare il mio villaggio per vedere il mondo.

Nel Febbraio del 1976 fui arruolato nell’esercito e lasciai quel villaggio che amavo e odiavo, ed entrai in una fase critica della mia vita, portandomi nel bagaglio i quattro volumi della Breve storia della Cina che mia madre aveva comprato vendendo i suoi gioielli nuziali. Così iniziò il periodo più importante della mia vita. Devo ammettere che se non ci fossero stati quei trent’anni di incredibile sviluppo e progresso nella società cinese, e la conseguente riforma nazionale con l’apertura delle porte verso l’esterno, oggi non sarei uno scrittore.

Nel pieno della noiosa vita militare abbracciai l’emancipazione ideologica e il fervore letterario degli anni ottanta, e mi trasformai da un ragazzo che ascoltava storie, e le raccontava secondo la tradizione orale, in una persona che sperimentava la scrittura. È stata una strada impervia, all’inizio, era il tempo in cui non avevo ancora scoperto che fonte ricca di materiale potessero essere le mie due decadi vissute al villaggio. Pensavo che la letteratura fosse tutta incentrata su brave persone che facevano buone azioni, storie di atti eroici e cittadini modello, così le poche cose che mi vennero pubblicate non hanno molto valore letterario.

Nell’autunno del 1984 fui accettato nel Dipartimento di Letteratura dell’ Accademia del PLA, dove, sotto la guida del mio mentore, il celebrato scrittore Xu Huaizhong, scrissi una serie di racconti e novelle, tra cui “Uragani d’autunno”, “Fiume secco”, “La carota trasparente” e “Sorgo Rosso”. La cittadina di Gaomi fece la sua prima apparizione in “Uragani d’autunno” e, da quel momento in poi, come un contadino nomade che trova alla fine il suo pezzo di terra, questo vagabondo della letteratura trovò un posto che riconobbe come suo. Devo dire che nella creazione del mio dominio letterario, il villaggio di Gaomi, sono stato influenzato dal romanziere americano William Faulkner e dal colombiano Gabriel Garcia Marquez. Non avevo letto molto di entrambi, ma ero stato incoraggiato dal modo audace e sfrenato in cui avevano creato nuovi territori nella scrittura, e ho imparato da loro che uno scrittore deve avere un posto che appartenga a lui solo. Umiltà e compromesso sono l’ideale nella vita di ognuno, ma nella creazione letteraria, fiducia suprema in sé stessi e il bisogno di seguire il proprio istinto sono essenziali. Per due anni ho seguito le orme di questi due maestri prima di capire che dovevo sfuggire la loro influenza. Ho descritto questa decisione in un saggio: Erano come una coppia di fornaci fiammeggianti ed io ero un blocco di ghiaccio. Se fossi andato loro troppo vicino mi sarei dissolto in una nuvola di polvere. Per quello che comprendo, uno scrittore ne influenza un altro quando i due condividono una profonda affinità spirituale, come spesso si dice “i cuori battono all’unisono.” Questo spiega come, anche se ho letto relativamente poco del loro lavoro, poche pagine siano state sufficienti per me per comprendere quello che stavano facendo e come lo stavano facendo, il che mi portò alla consapevolezza di quello che dovevo fare e in che maniera dovevo farla.

[Continua...]

© THE NOBEL FOUNDATION 2012
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4 Responses to “Il Nobel per la Letteratura a Mo Yan - Cantastorie (Pt.1)”

  1. Woltaired Says:

    Grazie!

  2. zaphod Says:

    Bè, pare si siano svegliati pure da Einaudi (scherzo: sicuramente l’apparato burocratico da smuovere è più pesante rispetto alla mezza piratata che ho fatto io) quindi il testo integrale da oggi (ma sempre qualche ora in ritardo rispetto all’Anonima) è disponibile anche sul loro sito: http://www.einaudi.it/speciali/Mo-Yan-Nobel-Lecture

  3. SCa Says:

    Grazie comunque, zaphod. Un’ottima traduzione.
    Immagino che la seconda parte me la debba leggere sul sito di Einaudi.

  4. zaphod Says:

    Grazie Sca.
    In effetti il mio era un tentativo di colmare una lacuna. Non nascondendo il piacere di aver bruciato tutti sul tempo. Con la pubblicazione della traduzione “ufficiale” einaudiana penso che il mio esperimento suonerebbe pleonastico. Anche perché mi è stato fatto notare che avrei dovuto chiedere il permesso alla Fondazione Premio Nobel, cosa che ho fatto, ma ancora non mi hanno risposto. Quindi per il momento la seconda parte la lascio in standby. Un’altra ragione è che la mia è una traduzione di riporto, dalla traduzione inglese, di terza mano diciamo, e invece credo che Luca Lamberti, il traduttore di Einaudi, sia partito dall’originale cinese. Però ho visto che la mia non mi sembra sfiguri molto al confronto e ciò mi gratifica molto dato che tradurre non è la mia specialità. Ma magari questo non dovrei essere io a dirlo…

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