Anonima scrittori


La Striscia al Torino Film Festival #3

Categoria: Assaggi, suoni, visioni e letture, La striscia di Faust
Postato da: Torquemada

Tripletta di qualità altalentante per aprire questa seconda giornata del Torino Film Festival by Anonima Scrittori.

Partiamo con il coreano “ANIMAL TOWN”, di Kyuhwan Jeon, pellicola che racconta delle vite di un pedofilo in cura e di un tipografo in difficoltà economica nella Seoul contamporanea. E’ la città stessa e, in essa rappresentata, la società tutta il vero oggetto del film, organismo di dimensioni ciclopiche ma cieco, sordo e comunque non interessato ai destini di protagonisti e comprimari che, in fin dei conti, altro non sono minuscole cellule che ne costituiscono parte della struttura.
Seoul ogni giorno ti sovrasta, ti ingoia, ti mastica e di tanto in tanto si prende la briga di risputarti tutto intero, o quasi, con i tuoi drammi personali che giorno dopo giorno scandiscono la tua vita nell’altrui indifferenza, perchè bene o male le cose devono andare avanti.
“Animal Town” è un lavoro dal ritmo lento, costruito sulla ripetizione e sull’attesa e su un registro molto, molto contenuto e quasi mai sopra le righe, seppur di poco.
Peccato per il finale che, nonostante non rovini realmente la pellicola, tutto sommato non è necessario in quanto le storie in essa raccontate si reggono tranquillamente sulle proprie gambe.
In definitiva un buon film, non eccezionale nè imprescindibile ma ben degno di una visione, soprattutto i suoi ritratti vivi e frontali nella propria freddezza rappresentativa.

Continuiamo con “LAS MARIMBAS DEL INFIERNO”, coproduzione franco-messicano-guatemalteca a opera di Julio Fernandez Cordon.
Parlando in tutta franchezza, io quando mi trovo di fronte a lavori come questo mi chiedo sul serio dove avessero intenzione di andare a parare autore e produttore.
La storia narra di un suonatore di Marimba, tipico strumento centroamericano,che trovatosi disoccupato si trova a tentare la strada della sperimentazione fondando, insieme a un musicista Heavy Metal passato attraverso diverse conversioni religiose, un gruppo che mischi la musica tradizionale con il metallo pesante.
Entrato in sala convinto di vedere una commedia, mi sono trovato spiazzato di fronte a un’opera a cui gli autori non sanno imprimere una direzione. In un’ora e dieci di film, numerosi sono quelli che altro non saprei definire se non sbalzi di registro, cambi di tono della narrazione che tutto sembrano fuorchè controllati e tutto sono fuorchè efficaci. Il risultato è un ibrido senza identità che scorre piatto per una durata percepita lungamente superiore a quella reale. I personaggi sono detestabili nel migliore dei casi, quando non tristemente incolori, e non si intravede nessuno sviluppo per nessuno di essi se non una serie di strade imboccate e abortite poco dopo.
Un Ufo cinematografico nella più deteriore delle accezioni.

LA CHIUSURA

Chiudiamo questa prima parte del report di oggi con “RED HILL”, di Patrick Huges.
Opera piacevolmente sorprendente, “RED HILL” si apre come un western contemporaneo ambientato nell’outback australiano con protagonista un poliziotto da poco trasferito in un paesino di campagna con tanto di moglie incita appresso alle prese con le differenze di mentalità fra paese e città. La svolta inaspettata, tuttavia, si ha quando il passato torna nel borgo di Red Hill e vecchi crimini tornano a galla.
Con questo inedito tributo allo slasher anni ‘80, Huges rispolvera il canovaccio sin troppo collaudato della vendetta a catena ricontestualizzandolo in un’ambientazione poco frequentata dal genere. Dopo una partenza tranquilla, la pellicola acquista un ritmo serrato in una corsa a denti stretti in un crescendo di violenza e situazioni adrenaliniche ben scritto adeguatamente dosato nei tempi. Da tempo non si vedeva una bodycount del genere sullo schermo, spietata senza istrionismi nè compiacimenti eccessivi. Convincenti le caratterizzazioni dei personaggi a cui viene concesso lo spazio giusto per non risultare piatte ma non più di quello necessario per essere funzionali a una trama che lascia poco spazio all’introspezione in favore di un’azione ben rappresentata ed efficace.
Ci sono, c’è da dirlo, alcuni errori tutto sommato perdonabili in quanto non realmente dannosi nell’economia generale dell’opera.
In definitiva un lavoro semplice e onesto, certamente non originale ma adatto allo scopo in termini di intrattenimento.

Procediamo di gran carriera verso la conclusione di questo report con la penultima delle visioni in programma : “JACK GOES FISHING”, di Philip Seymour Hoffman, storia di quattro persone e dei loro tentativi, più o meno fruttuosi, di superare le proprie nevrosi. L’opera è tutta costruita sui personaggi, sulle loro relazioni e, soprattutto, sulla loro incapacità di avere un rapporto sereno con se stessi e con il mondo. A tratti divertente e a tratti amaro, il film segue un percorso lineare che si evolve in un climax davvero forte e inaspettato. Ben rese le trasformazioni speculari delle vite del protagonista, Jack, e dell’amico Clyde, l’uno intento a venire a patti con i propri evidenti limiti nel tentativo di costruire un rapporto con l’altrettanto problematica Connie e l’altro che si riscopre incapace, proprio malgrado, di superare il proprio passato al punto di minare le fondamenta del proprio matrimonio cercando di dimostrare a se stesso il contrario. I ritratti che emergono dalla rappresentazione di Hoffman sono vivi e realistici e i personaggi sono commoventi quanto divertenti in tutta la loro vulnerabilità e nel loro essere, nonostante tutto, fragili rispetto al contesto che li circonda. Il registro della narrazione è discreto e quasi mai sopra le righe e la trama lascia moltissimo spazio ai dialoghi, esilaranti in più di uno scambio e metro di misura di una caratterizzazione ben approfondita. Una commedia agrodolce fruibile ma non facilissima, mai premiata sinora dal successo commerciale, “JACK GOES FISHING” è una prova solida soprattutto in termini di scrittura.

Chiudiamo il nostro report del Torino Film Festival con il ritorno di un grande maestro dell’horror. Sto parlando di John Carpenter e del suo “THE WARD”, preceduto dall’esilarante cortometraggio musical “THE LEGEND OF THE BEAVER DAM”, di Jerome Sable. Dopo quasi un decennio torna sulle scene il regista di “La cosa” e lo fa con un back to basics alla sua maniera, ovvero con un film piccolo ma agguerrito e molto, molto artigianale. La vicenda è ambientata in un ospedale psichiatrico, evergreen del genere, entro le cui mura la protagonista si troverà rinchiusa a lottare con tutta la propria determinazione. Semplice, diretto, aggressivo e pervaso da un’atmosfera febbrile e claustrofobica, “THE WARD” è un lavoro che omaggia e riprende in maniera scoperta gli anni ’70 sia nei toni che in un modo di fare cinema schietto e poco propenso ad andare per il sottile. Carpenter racconta con piglio deciso e senza curarsi della scarsità di mezzi, costruendo molto sull’atmosfera e su una vicenda che tiene alta l’attenzione nel suo svelarsi poco per volta. Una trama, per certi versi, a orologeria in cui tutto torna ma solo a posteriori e una caratterizzazione dei personaggi a ciò funzionale danno vita a un prodotto di intrattenimento semplice ma onesto e non privo di trovate interessanti. Da manuale l’utilizzo del meccanismo colpa-punizione che sta alla base della narrativa horror, suggerito ma mai apertamente svelato se non alla fine del film. Un’opera certamente meno coraggiosa e meno divertita del precedente “Fantasmi da Marte” e autoreferenziale nello stile, “The Ward” è un lavoro godibilissimo di un regista capace di intrattenere senza pur segnare alcun passo in avanti nell’evoluzione della propria poetica.

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