Anonima scrittori


Le merendine, l’acqua calda e un poco d’epistemologia d’accatto.

Categoria: Interpretazioni
Postato da: Torquemada

di Massimiliano Lanzidei

I cocomeri di Mao.

Che il diavolo mi porti se riesco a ricordarmi il motivo per cui avevo deciso di intitolare in questa maniera le poche righe che hanno cominciato ad affollarmi i pensieri durante e dopo (anche se già da prima – leggendo il libro Scienza e sentimento – qualche osservazione mi era venuta in mente) l’incontro organizzato da Anonima Scrittori con Antonio Pascale.
Alla conversazione hanno partecipato anche Lucio Caracciolo e Antonio Pennacchi ed è stato proprio riferendosi a quest’ultimo che Pascale ha citato un episodio visto in televisione anni prima. In quell’occasione aveva visto l’autore de Il fasciocomunista, scagliarsi in trasmissione contro Nanni Balestrini colpevole di aver inserito in un suo romanzo il personaggio di un operaio che sputa nelle merendine che fabbrica come gesto di rivolta (credo) contro il sistema.
“Non esiste,” dice Pennacchi, e guarda sornione Pascale mentre rievoca l’episodio, “un operaio ha rispetto del proprio lavoro, un gesto come quello inventato da Balestrini non è verosimile.” Scioperare, sì. Fermare la produzione, anche. Ribaltare le automobili dei dirigenti, pure. Al più, in un rigurgito luddista, sabotare le macchine, come gesto estremo. Sputare sul proprio lavoro invece non sta né in cielo né in terra.
E’ forte sto Pascale. Intacca magistralmente alcune delle parole d’ordine dell’ambientalismo e delle forze reazionarie che spesso ci insinuano il dubbio del “si stava meglio quando si stava peggio.” Forze reazionarie che – sorprendentemente – trovano il loro terreno più fertile nella sinistra, in quella riformista e – forse anche di più – in quella critica e alternativa.
E allora ben venga il monito di Pascale a seguire i rigidi principi del ragionamento scientifico. La verifica delle ipotesi su base empirica, il controllo della comunità scientifica, la riproducibilità delle procedure. E, a monte di tutto il discorso, sapere di cosa si sta parlando, conoscere la materia. Si stava meglio quando si stava peggio? Può pure essere. Ma mi devi spiegare che significa meglio e cosa intendi per peggio. E per buona misura mi devi anche specificare l’intervallo temporale che identifichi con la parola quando.
Una volta che ci siamo messi d’accordo allora posso pure essere d’accordo con te che i pomodori che tu mangiavi quando andavi in vacanza sulle pendici del Vesuvio erano più gustosi di quelli che io trovo all’ipermercato sotto casa a un euro e trentasei centesimi al chilo.
Per esempio c’è un amico mio che giura e spergiura che i cocomeri qua della zona intorno a Latina non sono più quelli di una volta. Ed è pronto a sfidarti a duello dietro la cattedrale San Marco se provi a convincerlo del contrario. Dice che c’era una varietà di cocomeri – me li ricordo pure io, mio padre li chiamava “italiani”, erano verde scuro e dolcissimi, sempre secondo mio padre – varietà che a un certo punto è sparita. Forse a causa di qualche malattia. O forse per altri motivi, bisognerebbe chiedere a qualche esperto del settore (magari lo stesso Antonio Pascale ne sa qualcosa). Mio padre dice ancora adesso che quei cocomeri erano speciali, quando ne trovavi uno buono, però. Perché spesso invece erano cattivi, o “passavano” di maturazione, vai a sapere. Per cui si faceva il “tassello”. Il cocomeraro – fermavamo la macchina sulla via del mare quando tornavamo dalla spiaggia, la domenica all’ora di pranzo – faceva un’incisione triangolare o quadrata nel cocomero, e te lo faceva assaggiare, se era buono lo compravi – te lo pesava sulla stadera - altrimenti te ne apriva un altro.
Sempre secondo mio padre – che è perito elettronico e non agronomo, quindi questa ricostruzione lascia il tempo che trova – esisteva un’altra varietà di cocomeri, detta “americana” - pure quella me la ricordo, era allungata come una zucca e a strisce verde chiaro/verde scuro come i cocomeri di adesso – e, sempre a sentire mio padre, della zucca aveva pure il sapore.
Incrociando – immagino tramite l’ingegneria genetica a manovella così ben descritta da Pascale nel suo libro – queste due specie è stata inventata la varietà attuale, che non raggiunge i picchi di bontà della “italiana”, ma mantiene un discreto standard qualitativo e mi è capitato anni fa – in un viaggio nel modenese – di leggere un cartello davanti a una bancarella di fruttivendolo sul ciglio di una strada con su scritto “cocomere di Latina”. E sul bancone, inequivocabilmente, c’era la variante “italo-americana” che tutti adesso conosciamo. A significare che sicuramente da ragazzi abbiamo mangiato (alcuni) cocomeri eccezionali, ma che, se non ci mettevamo le mani a reimpastare le carte, col cavolo che i cocomeri nostri ci arrivavano nel modenese e che – pure qua – chissà se ci sarebbe stato qualcuno che avrebbe preservato “l’antica arte del cocomero nostrano” per far gustare – sicuramente a prezzi da tartufo di Alba – a qualche gourmet impaccato di soldi lo “squisito nettare dei tempi andati”.
Non si può fare una frittata senza rompere le uova. O una rivoluzione senza spargimenti di sangue. O un progresso senza sacrifici.
Giusto?

Rose, fiori, e la loro negazione.

Quindi il bandolo della matassa è presto trovato. I principi del ragionamento scientifico. Si formula una ipotesi, si sottopone a verifica sperimentale, si traggono le conclusioni.
E con questo metodo Pascale smonta “i luoghi comuni” dell’ambientalismo, della decrescita, dei bei tempi andati. Per esempio è opinione comune che con gli Ogm il contadino è obbligato ad andare a comprare i semi dalle multinazionali perché alla seconda generazione non sono più produttivi, lo strillano dalle pagine de Il manifesto (lo so, ce l’ho letto io lì sopra, ne ero convinto finché non mi è capitato tra le mani il libro di Pascale: gli ogm sono un’invenzione del capitale, il male assoluto). Sì, vabbè, però pure i semi tradizionali te li devi andare a comprare ogni anno, pure di quelli la seconda generazione non vale una cicca. Da questo punto di vista Ogm non è solo uguale a tradizionale, ma addirittura è pure uguale a “biologico” (orrore). E – colpo su colpo – si demoliscono gran parte dei pregiudizi sugli ogm. C’è pure un sito internet www.salmone.org dedicato alla divulgazione in campo ogm. Mi stanno simpatici. Vanno controcorrente, ovviamente. Quando ho contattato il responsabile del sito gli ho detto che la loro metafora del salmone mi sembrava ottimistica. Che andare contro la corrente del mito di Frankenstein nel nostro paese era impresa titanica. Mi hanno risposto che la mia definizione del salmone-ottimista gli era piaciuta. E hanno continuato a nuotare.
Facciamo finta allora che abbiamo fatto tabula rasa.
Abbiamo preso i tuttologi di tutte le fazioni e li abbiamo chiusi in un bel reality-show a interpretare le loro parti di apocalittici o integrati, chi vuole seguire i dibattiti in merito si sintonizza sull’apposito canale del digitale terrestre, gli altri se vogliono si accomodano nella nostra sala conferenze a seguire il nostro dibattito scientifico, altrimenti fanno quello che gli pare.
E qui – direbbe un amico mio che poco ha studiato ma molto ha vissuto – cominciano i cazzi.
Perché adesso siamo liberi di ragionare da persone civili e con gli strumenti giusti di tutto quello che ci pare. Possiamo chiamare i salmoni e gli scienziati anti-Ogm (perché pure di loro ce ne saranno, no?) a raccontarci le loro ragioni e valutare le ipotesi degli uni e quelle degli altri. Oppure – come suggeriva Pennacchi al direttore di Limes – avviare un serio dibattito sulle energie tradizionali e alternative. Mettere sul tavolo cifre, studi, ipotesi, prospettive e analizzare il tutto per avere un quadro il più possibile completo e articolato.
Ma – mi chiedo per semplificare – chi facciamo entrare per primo in sala riunioni? Gli agronomi per il dibattito sulla genetica? I tecnici dell’energia? Da quale problema iniziamo?
E già me li immagino che ricominciano a strillare per avere la precedenza: l’apocalisse! La fame nel mondo! La mancanza di energia! Il medioevo prossimo venturo! Poco male. Ormai conosciamo il rimedio. Prendiamo quelli che strillano più forte e li buttiamo nella stanza del reality. Se abbiamo una fortuna sfacciata quelli che rimangono sono più calmi e sanno raccontarci le loro teorie in maniera comprensibile e interessante, se viceversa ci dice male, ci mettiamo pure noi a guardare il reality, almeno quattro risate sono assicurate. E chi s’è visto s’è visto.
Facciamo finta però (la fantascienza è uno dei miei generi preferiti) che siamo riusciti ad andare avanti col dibattito e abbiamo deciso di iniziare dal discorso energetico. Già mi immagino che qualcuno si alza e protesta: perché proprio con quello? Risposta: perché l’ha proposto Pennacchi e si sa che noi facciamo sempre quello che dice lui. Punto.
Ho la sensazione che gira che ti rigira il dibattito – senza grosse varianti – porterà a una formulazione di questo genere: sgombrato il campo dalla credenza esoterica che possa essere prodotta energia dal niente, quello che rimarrà sarà una serie di metodi che (come già avviene in tutti i processi di produzione dell’energia) impiegheranno una quantità enorme di energia per produrne una quantità molto piccola. Non si scappa. E’ il secondo principio della termodinamica. L’energia va sempre in discesa. C’è solo un momento in cui si raggiunge il pareggio. Dispiace dirlo, ma è la morte. L’entropia massima. La stasi. L’immobilità assoluta. Ci arriveremo, fra qualche miliardo di anni, quando tutta l’energia presente nell’universo sarà equidistribuita. Calma piatta. Totale.
La vita è un’altra cosa. E’ andare contro corrente, come i salmoni, appunto. Sapendo che alla fine del viaggio - se non ti abbranca qualche orso lungo la via – il meglio che ti può capitare è lasciarci le penne a due passi da dove sei nato, finalmente in pace e placato. Ma dopo che ti sei fatto un mazzo tanto per tornarci. Nessuna via d’uscita.

Postilla epistemologica: zio Max e babbo Natale.

Quando sento parlare di obiettività e di scientificità addrizzo sempre le antenne e mi preparo al peggio. Da qualche parte c’è la fregatura. E allora chiamo sempre in soccorso lo zio Max (Weber) perché citare i classici a volte fa figura, ma soprattutto perché certi paletti bisogna metterli nelle discussioni. E allora se uno è il secondo principio della termodinamica, l’altro è questo semplice enunciato che cito a memoria e che quindi non sono in grado di giurare sulla sua esattezza né di indicare la fonte: “una scienza empirica non può in nessun caso dire ciò che un uomo DEVE fare, ma solo ciò che PUO’ fare, e – in qualche caso – ciò che vuole fare.” La scienza risponde a dei quesiti. La decisione di quali quesiti porre, di come interpretare le risposte ai quesiti, delle decisioni da prendere, attengono alla sfera etica e politica.
Certo, la scienza serve a conoscere, e lo scienziato, si badi bene, fa sempre riferimento ai suoi propri valori (dice sempre lo zio Max) quindi è portatore di una visione del mondo parziale e quindi inattendibile, ma proprio da questa consapevolezza nasce l’obiettività scientifica e la possibilità di controllo da parte della comunità (scientifica e non).
Viviamo tempi complessi (come sempre, direbbe Flaiano) ben vengano allora i moniti di intellettuali rigorosi come Pascale e Pennacchi a non prestare orecchio alle sirene dell’emozione e del luogo comune. E – aggiungo io, ma mi sento in buona compagnia – non sfuggiamo alle nostre responsabilità delegando la scelta a presunte “oggettività tecniche”. Il “mito della buona scienza” nasconde insidie non dissimili da quelle della “creatura di Frankenstein”.
Da anonimo scrittore il racconto dei miti mi affascina.
Ma mica è scritto da qualche parte che devo credere per forza a Babbo Natale, o no?

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