Anonima scrittori


Luciano Lanna su Accanto alla tigre

Categoria: Assaggi, suoni, visioni e letture
Postato da: zaphod

Luciano Lanna - già giurato del nostro concorso (r)esistenza insieme proprio a Pavolini e Antonio Pennacchi - recensisce su Il Fondo magazine il romanzo Accanto alla tigre pubblicato da Fandango.

Dal 20 marzo sarà in libreria, pubblicato da Mursia,La morte dei fascisti, il libro postumo del compianto Giano Accame, un lavoro al quale l’autore aveva lavorato almeno vent’anni. Il libro parte dall’immagine di Piazzale Loreto così come è stata immortalata poeticamente da Ezra Pound nell’inizio dei suoi Canti pisani: «L’enorme tragedia del sogno sulle spalle curve del contadino / Manes! Manes fu conciato e impagliato / Così Ben e Claretta a Milano / per i calcagni a Milano…». E l’autore analizza anche come quella stessa scena sia stata assunta a metafora della tragicità del Novecento da Curzio Malaparte, Salvatore Quasimodo, Carlo Emilio Gadda… Peccato solo che Accame non abbia potuto leggere un romanzo uscito in questi giorni e in cui la stessa scena diventa centrale per uno scrittore di nuova generazione, Lorenzo Pavolini: Accanto alla tigre (Fandango Libri, pp. 244, € 16,50). L’autore è un narratore nato nel 1964, che ha avuto un’educazione e una formazione di quelle normali per tutta quanta la generazione deibaby boomers, si occupa di teatro, di riviste letterarie e di trasmissioni radiofoniche, per lui il Foro Italico non è niente di più dello scenario del suo apprendistato in bicicletta, sui pattini e in skate-board: «Nessuno stupore e nessuna domanda per quel menhir bianco candido con la scritta DUX MUSSOLINI… Era un campo giochi ideale, liscio scorrevole ampio e verde come un parco, relativamente poco affollato…».

Ecco, Lorenzo nella sua infanzia non sapeva che suo nonno Alessandro fosse stato un leader fascista fucilato a Dongo a soli quarantadue anni e appeso a testa in giù a piazzale Loreto, fino a quando non si era imbattuto in una fotografia sul libro di storia della seconda media. In famiglia circolava la versione del nonno “morto in guerra” e Lorenzo, incoraggiato da una foto sul comodino della nonna, pensava fosse stato un aviatore, e che avesse avuto la peggio in un duello aereo, come era capitato ad Antoine de Saint-Exupéry, a quell’età il suo eroe-scrittore preferito.

Un nonno che manca all’uscita di scuola, dove gli altri nonni spesso si manifestavano pubblicamente, con un’assenza che via via «diventa un tarlo, un fantasma, anzi un vampiro». Gli spiega l’amico scrittore Fulvio Abbate: «Un vampiro in casa, il marchio nascosto di una passione…». Ha annotato Pierluigi Battista nel suo recente saggio I conformisti. L’estinzione degli intellettuali d’Italia (Rizzoli): «Prima non era così. Per coloro che avevano scelto la sinistra risultava enormemente difficile trasferire in una dimensione pubblica l’esperienza familiare di un fascismo mai rinnegato. Per molti giovani il parente fascista ha incarnato un segreto conturbante, una condizione da nascondere e occultare, un marchio socialmente inaccettabile e inaccettato. Tra i più dolorosamente esagitati, persino una maledizione anagrafica di cui vergognarsi. Ora un argine psicologico sembra che sia stato travolto, alla buonora…».

Anche Lorenzo, infatti, comincia a tirare fuori il rimosso, sfoglia libri, cerca documenti, lascia che la sua scrivania ne sia invasa. Nel 1991 esce al cinema il docu-film I 600 giorni di Salòdi Nicola Caracciolo: «La voce di mio nonno l’avevo ascoltata per la prima e unica volta in quel filmato, la voce di un nonno mai conosciuto che parla in un documentario riferendo con puntualità un messaggio del duce. Io lo so che è assurdo, ma nella grana di quella voce ho avvertito una dolcezza infinita…».

Il bello di tutta questa ricerca di un nonno perduto sta nel percorso postmoderno e tutt’altro che identitario che l’autore percorre, tra scritte sui muri dei nostri giorni, negozi d’antiquariato, internet, incursioni nel triangolo delle Bermude di un certo mondo “non-conforme” – tra Casa Pound, il Cutty Surk e Colle Oppio – nel quartiere romano dell’Esquilino, dove Lorenzo vive, oppure delle chiacchierate coi suoi amici scrittori –Antonio Pennacchi, Aurelio Picca, Enzo Siciliano – o imbattersi nella via dedicata al bisnonno Paolo Emilio Pavolini… Per non dire della serata conclusiva del premio letterario dell’Anonima Scrittori – di cui pure chi scrive è stato come Lorenzo giurato in una edizione – che finisce con un viaggio verso la tomba del nonno: «Una pizza tutti insieme, giuria, assessori, premiati, birra, vino, amaro, grappa e… Si parte: gpl, rock and roll e via, sulla strada come vecchi fricchettoni fasciocomunisti…».

Su tutto, c’è per Lorenzo un vero e proprio mistero Pavolini: come mai suo nonno, un intellettuale precoce, scrittore di qualità, a venticinque anni il suo primo romanzo, fondatore della rivista Il Bargello, inventore del Maggio musicale fiorentino, che ancora resta, promotore della Mostra del Cinema di Venezia, amico di Rosai, Bilenchi, Montanelli,ministro della cultura popolare, direttore del Messaggero, protettore di Elio Vittorini e sponsor della musica jazz nella radio repubblicana, finirà in quel modo a piazzale Loreto? Una prima spiegazione arriva attraverso un racconto di Romano Bilenchi presente nel suo libro Amici: «Tu non hai mai chiesto niente al regime – diceva Pavolini allo scrittore di Colle Val d’Elsa – e puoi anche avere cambiato idea. Io sono salito sulla tigre e non posso scendere…».

Anche Elio Vittorini, annota ancora Lorenzo, che fu anche lui molto amico di Bilenchi, aveva scelto una precisa epigrafe per la sua autobiografia intellettuale Diario in pubblico (del 1956): «Chi cavalca la tigre non potrà più scendere, dice un antico proverbio indiano. Ma chi ha voglia di scendere?». E quella della tigre diventa la metafora più appropriata del destino tragico del Novecento: «Pretesa di totale controllo, in ogni situazione, delle proprie forze e di quelle della natura, capace di contagiare una popolazione di tigri con uomini occidentali in groppa particolarmente folta in quel lungo scorcio di secolo; forse l’ultima illusione che le nostre culture abbiano saputo esprimere in termini di guida, opportunità di incanalare, rivolgere al meglio le energie tribali proprie e altrui».

Se ne occupò anche Lao Tzu: il classico paradosso delle arti marziali per il quale il comportamento più opportuno da tenere nei confronti di una energia tragica e pericolosa con cui si è costretti a convivere sarebbe addomesticarla. Una tentazione titanica. Lorenzo Pavolini, tra l’altro, ricorda che negli stessi anni in cui Vittorini andava limando il suo Diario in pubblico sotto il segno intenzionale dell’equitazione felina, un altro intellettuale d’origine siciliana, Julius Evola, elaborava un trattato di condotta esistenziale per i neofascisti proprio con il titolo di Cavalcare la tigre, pubblicato da Vanni Scheiwiller nel 1961. Ma Lorenzo fa sua un altro approccio alla questione, quello di una sua tigre personale, una presenza che lo accompagna dalla sua infanzia da quando lesse La tigre di Tracy di William Saroyan. In quel racconto la tigre, cui il protagonista vive “accanto”, è l’animale amico, l’orso dell’infanzia a cui si rivolge per un supplemento di coraggio di fronte alla vita. «Io preferisco – leggiamo in un punto del romanzo – stare dalla parte di Tracy, il non-domatore. Il Tracy di Saroyan, scrittore che deve la sua breve fama italiana a Vittorini».

Sta anche in questo il fascino della narrazione di Lorenzo: in un percorso in cui l’accostamento del nome di suo nonno a Capitan Harlock si affianca ai ricordi d’infanzia – come quando andava alla Filarmonica con sua nonna e le signore Romualdi, Almirante eMezzasoma - o al fatto che Pound sia stato il poeta preferito dei suoi vent’anni… Poi c’è l’incontro con il suo di genitore: «Sapevo che in fondo alla strada c’era lui, che ha avuto il padre fucilato quando era un bambino di sette anni…». E, alla fine, le parole della sua di figlia: «Quelle quattro, subito m’hanno cominciato a rompere… perché c’avevo la felpa Fruit of the Loom. Mi tirano la manica, mi urlano di muovermi. Mi canticchiavano “vuoi fare l’eroe, Pavolini”».

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