Anonima scrittori


Racconto - Meglio prete che operaio

Categoria: Narrazioni
Postato da: Torquemada

[Il racconto è di Gabriele Santoni, uno degli autori de 'Il bit dell'avvenire' e anonimo scrittore della colonna velletrano-lombarda. E' stato uno dei racconti finalisti, nella categoria under 35, per il concorso 'Subway-Letteratura' arrivato alla sua IX edizione. Si parla di ideologie e di sogni d'infanzia, passando per gli scontri padre/figlio senza tralasciare una punta di fantastico. Il tratto di fondo sembra essere quello della vocazione, laica o religiosa che sia.]

MEGLIO PRETE CHE OPERAIO
di Gabriele Santoni

L’autunno si presentò nel migliore dei modi, a dispetto di una estate da dimenticare. Il venticello era fresco e strappava qualche foglia dagli alberi di acacia. Poche pozzanghere lungo i marciapiede. Il sole batteva proprio sulla porta d’entrata dell’ospedale San Giovanni.
Nino se lo ricorda bene, perché mentre attraversava di corsa quel portone il riflesso del sole per poco non lo acceca. Aveva lasciato la macchina in sosta vietata e nemmeno s’era ricordato di chiuderla. Anna stava per partorire e allora la strada se l’era fatta tutta di corsa, dieci minuti ed era lì.  Il fiato sembrava non averlo seguito.
Nino se lo ricorda bene quel giorno.
“A dotto’”, aveva detto all’ostetrico, “fa che nasce maschio altrimenti m’incazzo!”
“Nino”, aveva risposto lui “io ci provo, ma non t’assicuro niente!”.
Il dottor Tredici, si chiamava così l’ostetrico, conosceva la famiglia di Nino da tanto tempo. Andava a Velletri almeno due volte l’anno a comprare il vino da suo padre.
Nino arrivò al piano appena in tempo per sentire il primo pianto del figlio. La suocera, almeno quella volta, non gli poteva rimproverare niente.
“Chi è il padre della creatura?”, un infermiere faceva capolino dalla porta.
“Eccolo, sono io”, Nino era sempre più teso, nervoso. “È maschio?” chiese con la faccia minacciosa, come fosse colpa dell’infermiere se fosse stata una femmina. “Mi pare di sì” e dopo aver dato un’occhiata più approfondita: “Sì, è maschio”.
Sul nome la discussione fu lunga. Nino lo voleva chiamare Palmiro.
“È una questione di coerenza”, diceva sempre.
Gli avevano raccontato mille volte la storia che da ragazzino, nella sezione del PCI di Velletri, il Migliore lo aveva tenuto in braccio. Quella volta c’era pure la Iotti che pare l’avesse anche baciato sulla fronte. Tarcisio, il padre di Nino, non perdeva occasione per raccontare questa storia, di lui nella sezione del partito con Togliatti e la Iotti. E Nino che sembrava più figlio loro che figlio suo. A ogni bicchiere di romanella  si veniva a scoprire qualche dettaglio in più, sempre diverso. Non ci volle molto perché tutta Velletri sapesse che Nino era stato tenuto in braccio da Togliatti. E che la Iotti l’aveva addirittura baciato sulla fronte.
Per questo Nino aveva deciso di chiamare il figlio Palmiro e non cedeva. Anna non era da meno.
“Nino, abitiamo già in via Palmiro Togliatti, non ti basta!?”.
La battaglia durò fino all’ultimo. Fosse stata femmina ad Anna piaceva Rita. Pure a Nino perché era il nome della prima moglie di Togliatti.
“Almeno scegli quella vera!”, strillava sempre la moglie quando Nino azzardava l’ipotesi di chiamare una eventuale figlia femmina Nilde, come la Iotti.
Alla fine nacque un maschio e lo chiamarono Miro. Dopo mesi di litigate quello era l’unico compromesso che erano riusciti a raggiungere.
Miro cresceva in fretta, sguardo vispo, capelli ricci e con la perenne voglia di muoversi. Imparò presto a gattonare, a far capire quando aveva fame e quando voleva dormire. La prima parola la pronunciò dopo nove mesi. La scandì chiaramente, a voce alta all’ora di cena. Scelse con minuzia un momento di silenzio. Diede due colpi con le chiavi di plastica della Chicco sul tavolo, come a voler dire “silenzio che devo dire una cosa!”. Si guardò intorno e con solenne naturalezza pronunciò la sua prima parola: “Papa”.
Anna e Nino rimasero in silenzio per un attimo, come a fermare il momento sulla pellicola dei loro ricordi.
“Hai sentito pure tu?” disse la moglie.
“Ho sentito…ha detto papà”.
Pasta e broccoli sul tavolo, il bottiglione del rosso mezzo pieno e il pane quello del giorno prima.
“Dillo un’altra volta amore di mamma, Paaa-pà!”.
Miro non si fece pregare e alzati gli occhi al cielo con i palmi delle mani rivolti verso l’alto fece:
“Papa”.
Di accentare l’ultima lettera nemmeno a parlarne. Continuò per mesi a dire “papa” anziché “papà”.
“Vedrai, imparerà”, continuava a ripetere Anna. Nino non si dava pace. Seduto davanti al seggiolone continuava e guardare Miro negli occhi e a ripetere quella parola, scandendo le due sillabe con ampi movimenti della mascella, manco stesse insegnando le parolacce a un merlo indiano!
I mesi passarono in fretta, il vocabolario di Miro guadagnò parole su parole. Riusciva a dire Mamma, Casa, Cane, Cacca, Pappa, Bumba. Finalmente imparò a distinguere Papa da Papà, con gran soddisfazione di Nino.
Miro crebbe subito in lunghezza. In testa i capelli biondi si arricciarono sempre di più e presto si definì il colore azzurro degli occhi.
Nino era un operaio non più giovanissimo. Dopo molti anni da precario aveva finalmente avuto il posto fisso, seppur con uno stipendio modesto. Anna, prima di rimanere incinta, lavorava a servizio e guadagnava il necessario per pagare le bollette. I pannoloni costavano, il latte in polvere pure. Omogeneizzati, biscotti Plasmon, dottori e dottorini causavano non pochi problemi al bilancio familiare. Per fortuna Tarcisio mandava al figlio parte del ricavato della vendemmia che permetteva a Nino di comprare un po’ di extra per il neonato, le scarpette carine, il ciucciotto che si carica di camomilla e lo sciame di api col carillon che girano sul lettino. Nonostante l’arrivo di “Miro l’Angioletto”, come lo chiamavano i parenti, quella di Nino rimaneva una famiglia di atei, bestemmiatori e comunisti fino all’osso. Anche quando, dopo l’ultima tornata elettorale, di comunisti in parlamento se ne trovavano ben pochi.
Non appena Miro fu in grado di camminare e indicare la porta del bagno quando aveva bisogni impellenti, Anna ricominciò a lavorare. Puliva le scale dei palazzi la mattina e nel pomeriggio aiutava la signora Ines del terzo piano a stirare. Quando non riusciva a conciliare i suoi orari di servizio con quelli del marito affidava il bambino a sua madre, la signora Ester, una donna ancora molto forte, arzilla e democristiana.
E fu proprio a casa di nonna Ester, una domenica mattina, che cominciarono a sorgere i primi dubbi.
La televisione del salotto era accesa, faceva da sottofondo alle faccende della domenica. Sulla Rai trasmettevano in diretta l’Angelus del Santo Padre. Il Papa polacco affacciato alla finestra aveva l’aria stanca, a stento si teneva in piedi. Aveva la forza però di scaldare gli animi delle migliaia di fedeli raccolti nella piazza del Colonnato. Le sue parole appena sussurrate, un’eco che con grandi passi raggiungeva anche le persone più lontane. Il volume della tv era alto, la nonna ci sentiva poco. Miro, che fino a quel momento aveva giocato a smontare a pezzi la sua macchinina, si era bloccato con lo sguardo incollato allo schermo. Gli occhi spalancati, la bocca aperta e un rigagnolo di bava. Tutt’intorno il vuoto. Miro era rapito dal silenzio surreale di tutta quella gente, dalla potenza delle immagini, dalla grandiosità di quei luoghi. E forse anche da quello strano cappello dorato che il Papa indossava.
La signora Ester si era fermata sulla porta badando bene a non fare rumori che potessero distrarre Miro. Nel frattempo era arrivato in casa anche Nino. Aveva le chiavi perché la suocera mezza sorda non sentiva il campanello. Era entrato in casa senza che Ester se ne accorgesse. Miro era ancora seduto sul tappeto con la macchinina in mille pezzi e il suo viso da angelo incollato alla tv. La signora Ester sulla porta, Nino alle sue spalle. Tutti e tre in silenzio: Miro rapito, Ester incantata, Nino incazzato.
“Ma tu guarda se mi doveva nascere un figlio prete!”, pensò. “E io che non volevo nemmeno battezzarlo! Tutta colpa della nonna. Come sempre!”.
Nino cominciò a farci caso, il figlio non perdeva occasione per confermare i dubbi del padre.
Lo incuriosivano le campane. Quando Miro le sentiva suonare correva alla finestra e guardava verso il cielo. I rintocchi arrivavano fin dentro casa, seppur lontani, e Nino faceva di tutto per nasconderli. Alzava a dismisura il volume della televisione o della radio. Tentava di corrompere l’attenzione del figlio con cioccolata e biscotti, quelli buoni. Ma non c’era nulla da fare. Miro distingueva il suono delle campane tra mille altri e correva alla finestra. Finiti i rintocchi tornava dal padre e tentava di recuperare le delizie che Nino gli offriva qualche minuto prima. “E no, caro mio! Mo te la pigli in saccoccia!”, Nino lo guardava di traverso, con astio. “O senti le campane, o mangi i cioccolatini”.
I mesi passarono nella speranza che crescendo Miro abbandonasse la sua propensione verso la Chiesa. Sarebbe stata un’onta troppo grossa per Nino, una vita trascorsa tra la sezione del partito, il sindacato e la fabbrica.
Una volta, quando a Velletri era segretario della giovanile del partito, organizzò pure la diffusione militante dell’Unità davanti la cattedrale. Il Vescovo, all’uscita della messa, li cacciò via urlando “Comunisti! Assassini!”.
Ma la cosa che lo preoccupava di più era la reazione di suo padre. Chi glielo diceva a Tarcisio che il nipote si voleva fare prete?
Miro cominciò a diventare un ometto di settanta, ottanta centimetri. Camminava già sulle sue gambe e adorava passeggiare con la mamma. Un giorno, approfittando dei saldi di fine stagione, tutta la famiglia si concesse una passeggiata lungo la via Tuscolana. Succedeva due volte l’anno, al cambio di stagione. Miro cresceva e aveva bisogno di vestiti nuovi.
Si fermarono davanti la vetrina di un bel negozio per bambini. Un sacco di assortimento, maglie e pantaloni di tutti i colori. A Miro piacevano i colori e anche lui rimase incantato davanti alla vetrina. E allora Anna volle coinvolgerlo, per la prima volta, nella scelta dei vestiti.
“Di che colore vuoi il maglioncino Miro?”
Non ci pensò più di un secondo, “Bianco!”, fece lui.
“E i pantaloncini?”
“Bianchi!”.
“E il cappellino, amore della mamma?”.
“Bianco!”.
“E le scarpette?”.
“Rosse!”.
Nino era nero in volto peggio della pece.
“Anna scommetto che tua madre gli ha fatto vedere un’altra volta il Papa in televisione!”
“Nino non t’arrabbiare”, Anna era mortificata. “Dice che era importante, c’era il Papa nuovo! Lo sai come è fatta mamma!”.
La domenica si pranzava dalla signora Ester, la madre di Anna. Era vedova e da quando il marito se ne era andato la assaliva la solitudine. Allora Nino, Anna, e Miro andavano a pranzo da lei.
Cucinava lasagna e cannelloni, pollo e abbacchio al forno, ciambelle dolci da bagnare nel vino. Lo stesso menù, da sempre. Per andare a casa di Ester percorrevano un tratto a piedi dopo aver parcheggiato la macchina, e spesso passavano davanti la chiesa Don Bosco, nel quartiere Cinecittà. Appena entravano nell’orbita della chiesa Miro iniziava a tirare la mamma per il braccio. La tirava con decisione, a testa bassa. Miro trascinava la mamma nella chiesa salesiana, entrava nel sagrato come attratto da una forza magnetica. Nino non entrava, aspettava in strada. Ormai aveva imparato, sapeva che sarebbero bastati  pochi minuti. A volte guardava in terra e prendeva a calci i sassi con rabbia. Altre volte guardava in cielo e si raccomandava a Togliatti, che da piccolo lo aveva tenuto in braccio. Un giorno, vinto, si sedette in terra e pianse. Senza lacrime, ma pianse.
Miro sapeva perfettamente dove si trovavano. Già dalla porta le individuava. Erano a sinistra della navata centrale, dietro una colonna e prima del confessionale. Trascinava la madre fin lì, fino alle candele. Poi tendeva la mano e aspettava che Anna sganciasse una moneta, di solito almeno cinquanta centesimi. La afferrava, la infilava nella fessura dell’offertorio e aspettava immobile il rumore del ferro contro ferro. L’eco arrivava non più di due volte, quello era il segnale che si poteva procedere. Prendeva una candela nel mucchio, accendeva lo stoppino servendosi di un’altra candela già accesa e la posizionava nella pinza sporca di cera.
Questa storia andò avanti per mesi. A volte Nino provava a cambiare strada per non passare davanti Don Bosco, ma non risolveva il problema. Ogni volta che si trovavano nei pressi di una chiesa Miro pretendeva la sua candela. Ad Anna costava 50 centesimi, a Nino molto di più.
Nino iniziò a ripetersi che dopotutto non era un dramma. Non sarebbe stato l’unico ad avere un figlio prete. Che poi, tutto sommato, un prete in famiglia faceva pure comodo, hai visto mai. Meglio prete che fascista. Meglio prete che romanista. Meglio prete che operaio, pensava alla fine del turno di notte.
Ormai si era abituato all’idea. Anzi, era talmente convinto di averla accettata che a volte sperava che finisse proprio così, con il figlio prete. Cominciava pure a dirlo in giro, in fabbrica, al bar. Ne parlava con Anna e con Ester, l’unica che gli dava veramente retta durante questi discorsi. Si soffermava sul pensiero del figlio prete quando era sotto la doccia, in macchina, in fila alla posta. Ormai era convinto e sereno. Quando passavano davanti la chiesa non aspettava nemmeno che Miro lo tirasse. Prendeva lui l’iniziativa e lo accompagnava dentro. Gli dava un euro, mica come quella tirchia di Anna.
Il rumore che fa un euro che cade nell’offertorio è diverso da quello dei centesimi. È un rumore deciso, importante. È il rumore di una vocazione già scritta. È un rumore che ti dice che oggi dai, ma domani avrai molto in cambio.
Una domenica come tutte le altre Nino e Miro, mano nella mano, andavano dalla nonna. Anna era rimasta a casa, aveva la febbre. Nino aveva già il suo euro pronto in tasca, l’euro per la candela di Miro. Erano quasi arrivati davanti Don Bosco, ma una musichetta allegra e fastidiosa disturbava il silenzio domenicale. Un gran vociare, squilli di trombette e risate festose. Avevano montato le giostre, proprio davanti la chiesa. Erano giostre piccole però, non come quelle dell’EUR. Non c’era la ruota panoramica, la casa degli orrori e lo zucchero filato. C’era solo un piccolo carosello con qualche cavallo e due navicelle spaziali. Più in là il “calcinculo” e le macchine a scontro. Davanti alla cassa una Ferrari a gettoni. Come quella di Schumacher, col numero 1 e la scritta Marlboro sull’alettone. Miro si era fermato e guardava le giostre, dall’altra parte della strada. Nino voleva sbrigare in fretta l’affare della candela perché aveva fame. Ma Miro non si curava proprio di Don Bosco, come se non ci fosse mai andato prima. Nino per un attimo si sentì smarrito, non ebbe nemmeno il tempo per pensare. Miro iniziò a tirare il padre per un braccio e per fortuna che non passavano macchine in quel momento. Attraversarono la strada e raggiunsero le giostre. Miro si fermò davanti alla Ferrari, fissava la gettoniera. Era come quella delle candele, sapeva come funzionava. Il meccanismo era lo stesso, infilavi la moneta e accendevi. Nino non capiva, era confuso, perplesso. Guardò il figlio, poi la Ferrari, poi la Chiesa e ancora il figlio.
Un giro 50 centesimi. Nino prese l’euro che aveva in tasca e lo cambiò alla cassa. Diede le monete a Miro, lo sollevò prendendolo per le braccia e lo fece sedere nell’abitacolo della monoposto. Miro afferrò con forza il volante, inserì la moneta nella fessura. La macchina iniziò a muoversi a destra e sinistra come stesse curvando. Si sentiva il rombo del motore. Nino guardava il figlio incredulo, col cuore in gola. Adesso il rombo era fortissimo, sembrava vero. Nello stesso momento suonarono le campane di Don Bosco. Ma niente, Miro correva alla conquista del suo Gran Premio sulla sua Ferrari rossa. Nino non realizzò subito. Capì che qualcosa di insolito stesse accadendo, ma i pensieri erano troppo veloci per essere interpretati. Fece la prima cosa che gli venne in mente, agì d’istinto. Tornò alla cassa, di corsa. Estrasse dal portafogli cinquanta euro e li passò al vecchio sotto la fessura del vetro. “Cambiameli tutti”, disse.
“Tutti?!” chiese il vecchio.
“Si, tutti. Da 50 centesimi”.
Il vecchio mise le monete in un sacchetto bianco, uno di quelli delle noccioline. Nino prese il sacchetto e lo poggiò ai piedi di Miro, all’interno dell’abitacolo della Ferrari. Miro inseriva le monete nella gettoniera con foga, era felice come mai prima.
Nino comperò due panini, patatine e coca cola. Chiamò Ester e la avvertì che non sarebbero andati a pranzo. Si rilassò su una panchina, prese pure il giornale, ma non  lo lesse. Guardava Miro sfrecciare con la sua Ferrari rossa e giocava ad immaginarlo adulto, su un circuito vero. Magari Imola, o Montecarlo, chi poteva dirlo. Miro era felice, Nino di più. Buttava giù monete su monete con un gesto quasi automatico. Passarono lì tutto il pomeriggio, fino a sera. Allora Nino prese in braccio il figlio, lo sollevò e lo fece uscire dalla macchina. Gli sistemò la giacca, riannodò la sciarpa. Mano nella mano si incamminarono verso l’uscita, Nino lo avrebbe portato alle giostre pure tutti i giorni se il figlio avesse voluto. Certo, non avrebbe potuto spendere tutti i giorni cinquanta euro. Ma quella era una occasione speciale e ne era valsa la pena. Cinquanta euro significava cento monete, cento corse con la Ferrari. Anzi, novantanove. Miro aveva usato tutte le monete. Tutte, tranne una.
In quel momento suonarono le campane. Era la Messa delle 6.

One Response to “Racconto - Meglio prete che operaio”

  1. Woltaired Says:

    “…il rumore di una vocazione già scritta.”
    Bello.

    - Benedici questa monoposto o Signore! -

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