Anonima scrittori


Realtà; Poesia

Categoria: Interpretazioni, Sulla letteratura
Postato da: Torquemada

[Altro saggio di Giancarlo Baroni, scrittore e poeta che abbiamo avuto l'onore di ospitare ne 'Il bit dell'avvenire'. Ne 'La faticosa necessità della scrittura', saggio già pubblicato su questo sito, si raccontava, attraverso la voce di molti scrittori, come è stato e sia possibile vincere - o non vincere - la sfida con la pagina bianca. Questa volta invece si parla di poesia, del suo rapporto con la realtà, della sfida - molto teorica - tra forma e sostanza.]

Nella storia ci sono dei momenti, dei periodi in cui si ha la sensazione che una brutta poesia, che sta però dalla parte della libertà e della democrazia, valga non soltanto più di una bella poesia che sostiene le posizioni opposte, ma anche di una lirica riuscita che non si schiera, che parla volutamente d’altro, che si nasconde e si mimetizza in attesa di tempi e di condizioni più favorevoli.
Sono periodi particolarmente drammatici e tormentati che dobbiamo augurarci di non vivere mai direttamente, dove anche i poeti si sentono spinti e costretti a prendere posizioni nette, a descrivere e a raccontare i fatti nella loro durezza, a denunciare ingiustizie e atrocità, a gridare la propria indignazione e rabbia, ad ammonire, condannare e testimoniare, in modo che nessuno, a cominciare da se stessi, possa rivolgere loro il rimprovero perentorio e micidiale mosso da Sartre nel 1945 a Flaubert e Gouncourt: “Io [li] ritengo responsabili della repressione che seguì la Comune perché non hanno scritto una riga per impedirla”.
L’impegno e la comunicazione prevalgono allora su stile, ritmo e bellezza, la morale e la politica sull’estetica, l’utilità sulla gradevolezza, la realtà sociale su qualunque altra realtà meno immediata, concreta e quotidiana.
Inevitabilmente crescono i rischi di enfasi, trasandatezza, prosasticità, e insieme a questi le prove mediocri e deludenti. Salvo alcune eccezioni, a partire dai seguenti versi di Pablo Neruda, straordinari per ardore e intensità, ispirati alla guerra civile spagnola:

Generali,
traditori:
guardate la mia casa morta,
guardate la Spagna a pezzi:
ma da ogni casa morta esce metallo ardente
e non fiori,
ma da ogni squarcio della Spagna
esce la Spagna,
ma da ogni bambino morto esce un fucile con occhi,
ma da ogni delitto nascono proiettili
che scoveranno un giorno
la tana del vostro cuore.

Chiederete perché la sua poesia
non ci parla del sogno, delle foglie,
dei grandi vulcani del suo paese natio?

Venite a vedere il sangue per le strade,
venite a vedere
il sangue per le strade,
venite a vedere il sangue
per le strade!

Il saggista e romanziere George Orwell nel ‘46 confida: “Ogni riga di serio lavoro che ho scritto a partire dal 1936 è stata scritta, direttamente o indirettamente, contro il totalitarismo e a favore del socialismo democratico[…]Punto di partenza è sempre[…]una sensibilità verso l’ingiustizia. Quando mi siedo a scrivere un libro, non mi dico: Adesso farò un capolavoro. Lo scrivo perché c’è qualche menzogna che voglio denunciare, qualche fatto sul quale voglio attirare l’attenzione[…]Ma” –puntualizza Orwell- “non potrei sopportare la fatica di scrivere un libro[…]se ciò non fosse anche una esperienza estetica”.
Come ogni arte, la letteratura possiede infatti esigenze, regole e metodi propri, con cui costantemente si raffronta e che riguardano appunto stile, lingua, forma eccetera. Un bell’ideale non rende automaticamente migliori racconti o liriche, e tuttavia una letteratura senza ideali rischia di perdere fiducia in se stessa inaridendosi.
Non è difficile trovarsi d’accordo con Verlaine quando dice “Sia musica, ancora e sempre musica!”, mettendo così in risalto le doti sonore e ritmiche della poesia; il dissenso nasce però non appena si considerano tali qualità come prioritarie o addirittura esclusive.
Allo stesso modo possiamo concordare con i versi di Piero Jahier che affermano “[…] la minima buona azione / vale la più bella poesia”, a patto di sapere che stiamo parlando di morale piuttosto che di letteratura, dato che il fare della seconda riguarda sempre un dire, anzi riguarda l’esprimersi nella maniera e nella forma più adeguate e riuscite, a patto di sapere che essa dista dalla cosa che in qualche modo descrive quanto la frase dista dall’oggetto che in qualche modo nomina. “Il poeta”, afferma Pascoli, “è colui che esprime la parola che tutti avevano sulle labbra e che nessuno avrebbe detta”.
Il rapporto fra vita e letteratura si basa quindi su uno scambio dialettico che partendo dalle sostanziali specificità e differenze le ridefinisce continuamente, si basa su un confronto e un dialogo durevoli ma non privi di attriti, grazie a cui esse si influenzano, sostengono e arricchiscono vicendevolmente. Essenziale e lapidario, Jahier dichiara: “Ognitanto dalla sua poesia si stacca una vita / ognitanto dalla sua vita si stacca una poesia”.
Tale reciprocità interessa anche le relazioni che intercorrono fra poesia, il meno discorsivo e narrativo dei generi letterari, e realtà. Il loro legame, particolarmente sfuggente e indeterminato, si veste dunque di incoerenza, ambiguità e magia, come dimostra questa lirica incline al paradosso di Wallace Stevens:

La poesia è il tema del poema.
Da ciò il poema ha origine ed a ciò

Fa ritorno. Fra questi due estremi,
Fra origine e ritorno,

C’è un’assenza in realtà,
Le cose come sono. O così pare.

Ma sono i due distinti? Ed è l’assenza
Che al poema dà là vere parvenze,

Verde di sole, porpora di nuvola,
Terra che sente, cielo che riflette.

Da questi prende. E forse anche ne rende
In universa reciprocità.

Valerio Magrelli sottolinea che la scrittura poetica non rappresenta, con fedeltà e precisione, la natura, anzi ne offre un’immagine sbiadita, opaca, divisa, confusa, sformata. La pagina non funziona come uno specchio, ma come un vetro dalla cui superficie granulosa si percepiscono e s’intravedono sagome e frammenti: “ / […] La scrittura / non è specchio, piuttosto / il vetro zigrinato delle docce, / dove il corpo si sgretola / e solo la sua ombra traspare / incerta ma reale. / E non si riconosce chi si lava / ma soltanto il suo gesto”.
Gli scrittori non sono demiurghi capaci di creare e inventare dal niente, né possono, usiamo un endecasillabo di Alfonso Gatto, “Risvegliare dal nulla la parola”, poiché il loro dire prende spunto e origine da libri, idee e fatti. Non si limitano, tuttavia, a copiare e imitare, perché sanno fornire delle cose un’interpretazione e una versione in buona parte inedite; ci riescono colorandole e rivestendole con stile, ritmo, linguaggio e sensibilità originali. “[…] / Guardo un attimo dalla finestra / e vedo la realtà. / Ovvero: la mia realtà,” riferisce il fiammingo Willem M. Roggeman “/ un angolo di giardino, uno stagno, / una strada con qualche villa. / […]Un angoletto che tra l’altro / ho osservato male. / Poiché ora che guardo / nuovamente questo foglio di carta / non riesco assolutamente a ricordarmi / se il sole era accecante / o splendeva solo un po’. / Se scrivo, me ne rendo ancora conto: / Solo nella lingua / riesco a farmi una chiara / immagine della realtà”.
La letteratura che si allontana troppo da se stessa, in direzione dell’esistenza, si trasforma gradualmente in qualche cosa d’altro. Se invece si rintana e trincera dietro i propri confini, prima o poi smarrisce significato, utilità e consapevolezza dei propri scopi.
Anche la poesia, per sua natura astratta, più si apparta dalle persone e dalle cose, più si scoraggia e s’isterilisce, diventa disincantata e scettica, corre il pericolo di ridursi a virtuosismo, passatempo e gioco. Alcuni scrittori arrivano a giudicare la propria marginalità una condizione definitiva e una specie di condanna alle quali è inutile reagire, come fa uno stanco piuttosto che ironico Montale nella composizione seguente:

L’angosciante questione
se sia a freddo o a caldo l’ispirazione
non appartiene alla scienza termica.
Il raptus non produce, il vuoto non conduce,
non c’è poesia al sorbetto o al girarrosto.
Si tratterà piuttosto di parole
molto importune
che hanno fretta di uscire
dal forno o dal surgelante.
Il fatto non è importante. Appena fuori
si guardano d’attorno e hanno l’aria di dirsi:
che sto a farci?

Patrizia Cavalli, disillusa e caustica, rincara:

Qualcuno mi ha detto
che certo le mie poesie
non cambieranno il mondo.

Io rispondo che certo sì
le mie poesie
non cambieranno il mondo.

Con l’identica rassegnazione montaliana, ma con tono sarcastico e irriverente, Palazzeschi paragona i poeti a saltimbanchi, a clown che fanno divertire e si divertono perché oggi a loro “gli uomini non domandano più nulla”. Beffardo, l’inglese Roger McGough svilisce i versi a strumenti di corteggiamento: “Le sue poesie sono reti / nelle quali lui spera / di catturare ragazze”.
Più per contrapposizione che per affinità, torna alla mente questa lirica di Franco Fortini, la cui esortazione conclusiva serve da monito e da guida:

[…]
Scrivi mi dico, odia
chi con dolcezza guida al niente
gli uomini e le donne che con te si accompagnano
e credono di non sapere. Fra quelli dei nemici
scrivi anche il tuo nome. Il temporale
è sparito con enfasi. La natura
per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.

Per altri scrittori, invece, superfluità e marginalità del poeta sono un’apparenza che nasconde uno stato di distinzione positiva e grazia di cui vantarsi. Orgogliosamente Marina Cvetaeva dichiara:

Ci sono al mondo esseri superflui,
creature in più, aggiunte senza peso.
( Assenti dagli elenchi e dai prontuari,
inquilini dei pozzi più neri.)

[…]ma ai poeti, a noi poeti,

noi paria e pari a Dio –
è dato, straripando dalle rive,
rotti gli argini, rubare
anche le vergini agli dei.

Lo scozzese William Neill rimarca dignità, fierezza e anche superbia con cui certi scrittori sostengono la loro scelta di povertà materiale e floridezza spirituale, anteponendo l’arte alla moneta: “Una sera che sedevo all’osteria / conobbi un uomo che si disse poeta. / Gli offrii un goccio e lo ascoltai vantarsi, / vestiva di cenci dalla testa ai piedi. // Bevve a volontà e pagai io, ovviamente, / e lui andandosene mi disse beffardo: / il denaro che hai in tasca, che fastidio! / io sì che ho un vero tesoro tra le orecchie”. Né tronfio né ampolloso, semmai travolgente, grottesco, iperbolico e tumultuoso, Majakovskij declama: “E Dio romperà in pianto sopra un mio libriccino! / […] / e correrà per il cielo coi miei versi sotto l’ascella / per leggerli, ansando, ai suoi conoscenti”.
Esistono parecchi lati e livelli della realtà, e altrettanti modi e mezzi per conoscerla. Alcuni autori credono che dietro questi strati si nasconda un’essenza spirituale, un’entità soprasensibile che la lirica, grazie alle proprie doti intuitive e analogiche, è in grado parzialmente di svelare. La poesia funziona per loro come cerniera di collegamento fra visibile e invisibile, naturale e soprannaturale, qui e altrove, e rischiara in modo lacunoso una verità destinata comunque a restare indecifrabile ed enigmatica.
Lo sguardo impedito da un’ombra così fitta da risolversi in chiarore (vengono in mente i versi seguenti di Giorgio Caproni “Là / il buio è così buio / che non c’è oscurità.”), tali scrittori si inoltrano in ambienti ardui e accidentati, permeati da una “raggiante oscurità”, si spostano dentro spazi poveri di coordinate.
Edwin Muir paragona il poeta a un cercatore che, percorrendo luoghi sconosciuti, si dirige verso mete irraggiungibili:

Quel che non saprò mai
Devo render noto.
Dove viaggiatore mai passò
Sta il mio dominio.

Valerio Magrelli lo descrive piuttosto come una specie di traduttore di una lingua non ancora pienamente interpretata, e immagina di “Scrivere come se questo / fosse opera di traduzione”. Lucian Blaga aggiunge: “Anche se invento una poesia / non faccio che tradurre”.
Tuttavia il senso ultimo e autentico del mondo vengono appena scalfiti e sfiorati, prevalgono il silenzio, il “non taciuto appena”, risposte elusive e domande incessanti .
Un tipo di poesia che rischia di fare come chi, per rincorrere una verità intangibile e inafferrabile, finisce per fuggire gli uomini in carne ed ossa, gli oggetti nella loro concretezza. Per non acuire la distanza fra parole e cose, conviene che le prime aderiscano alle seconde senza rimanervi impigliate, che la scrittura faccia riferimento ai fatti tentando di raggiungere le sostanze che conservano. Non importa se il poeta procede dal particolare all’universale o viceversa, purché l’uno contenga a sua volta l’altro. Conta invece che i versi arricchiscano di significati, stimoli ed eleganza il mondo.

Giancarlo   Baroni

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

1.    J.P. Sartre, Presentazione di “Temps Modernes”, in Che cos’è la letteratura?, il Saggiatore , Milano, 1995, p.125.
2.    P. Neruda, Spiego alcune cose, da Terza residenza, in Poesie (1924-1964), Rizzoli, Milano, 1996,pp.115-117, traduzione di Roberto Paoli.
3.    G. Orwell, da Perché scrivo, in Nel ventre della balena e altri saggi, Bompiani, 1996, p.103.
4.    P. Verlaine, Ars Poetica, in Poesie e prose, Arnoldo Mondadori, Milano, 1992, p.359, a cura di Diana Grange Fiori.
5.    P. Jahier, Giorni, e Arte poetica, in Poesie in versi e in prosa, Einaudi, Torino,1981, p.161 e p.179.
6.    G. Pascoli, Il fanciullino, Feltrinelli, Milano, 1992, p.50.
7.    W. Stevens, L’uomo dalla chitarra azzurra XXII, in Mattino domenicale e altre poesie, Einaudi, Torino,1988, p.71,traduzione di Renato Poggioli.
8.    V. Magrelli, in Ora serrata retinae, Feltrinelli, Milano,1989, p.23 p.89.
9.    A. Gatto, In un soffio, in Poesie, Jaca Book, Milano, 1998, p.85.
10.    W. M. Roggeman, Guardare e vedere, in L’invenzione della tenerezza, Mobydick, 1995, p.31, a cura di Giovanni Nadiani.
11.    E. Montale, La poesia, da Satura, in Tutte le poesie, A. Mondadori, Milano, 1996, p.332.
12.    P. Cavalli, da Le mie poesie non cambieranno il mondo, in Poesie, Einaudi, Torino, 1992, p.5.
13.    A. Palazzeschi, Lasciatemi divertire, in Poesie, A. Mondadori, Milano,1971,p.92.
14.    R. McGough, Le sue poesie sono reti, in Sconfiggere la gravità, Edizioni Sestante, 1994, p.57.
15.    F. Fortini, Traducendo Brecht, in Poesie scelte, A.Mondadori, Milano, 1974, p.125.
16.    M. Cvetaeva, Il poeta, in Dopo la Russia, A. Mondadori Editore, Milano,1997, p.97, a cura di Serena Vitale.
17.    W. Neill, Denaro e orgoglio, in Stagioni, Mobydick, Faenza, 1999, p.13, a cura di Andrea Fabbri e Emanuela Zocca.
18.    V. Majakovskij, Eppure, in Poesia russa del Novecento, a cura di A.M.Ripellino, Feltrinelli,Milano,1979,p.247.
19.    G. Caproni, La lanterna e Il cercatore, in Poesie, Garzanti, Milano, 1976, p.176 e 225.
20.    E. Muir, Il poeta, in Un piede nell’Eden e altre poesie, Einaudi, Torino, 1974, p.105, trad. di Marina Pellizzer.
21.    L. Blaga, Il poeta, in I poemi della luce, Garzanti, Milano, 1989, p.291, trad. di Sauro Albisani.
22.    M. Luzi, in Frasi e incisi di un canto salutare, Garzanti, Milano, 1990, p.22; Al fuoco della controversia, Garzanti, 1978, p.212.

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