Anonima scrittori


(r)esistenza 2010 - Backstage

Categoria: (r)esistenza, Narrazioni
Postato da: Torquemada

[Un nuovo racconto di (r)esistenza quotidiana. Dopo Marco Berrettini è il turno di un altro grande anonimo lombardo: Stefano Tevini. Già autore della Striscia, sui fumetti e su altre vie del fantastico, ha partecipato all'iniziativa letteraria del 2010 con un racconto che parla del wrestling, un mondo che parecchi sono abituati a vedere soltanto in televisione. Lui ce lo fa conoscere da un'angolazione insolita: il Backstage, appunto.]

Lo schiaffo sul culo mi arriva quando sto facendo il riscaldamento per il collo. Bisogna scaldarlo bene, il collo, se no si rischia grosso. E’ l’assicurazione sulla vita per chi pratica il wrestling, te lo dicono fin dalle prime lezioni. Mi sono messo dove ci sono le docce prepararmi con calma che se già le botte nei giorni a venire si fanno sentire, salire sul ring a freddo significa non dormire per settimane. Insomma, sono lì che formo un triangolo che ha per vertici la mia testa appoggiata a un asciugamano, i miei piedi e il mio culo che punta verso il soffitto. Con le mani dietro la schiena oscillo avanti e indietro quando qualcuno apre la porta dello spogliatoio e sciaff!

“Ma vaffa…” parto io mentre torno sulle ginocchia e mi giro per vedere chi è.

“Rapido che fra poco hai il match, sei dopo la pausa”

“Ma scusa, non c’era prima il match di Luigi contro lo scozzese?”

“Lo scozzese sta male, Mauro e Lele lo hanno fatto bere ieri sera. Dai muoviti”

“Ma puttana miseria”

Ecco, mi pareva che tutto stesse andando troppo bene. Sì, perché se prima di cominciare lo show non succede qualche casino non siamo contenti, vuoi mettere che palle se uno arrivasse qua alle due e riuscisse a preparare tutto con calma? Sì, perché sia ben chiaro, qui facciamo tutto noi. Non siamo mica come quelli della televisione, che hanno un service da far spavento. Qui gestiamo tutto per conto nostro. Arriviamo sul posto nel primo pomeriggio e cominciano a scaricare il furgone : il ring, le luci, il merchandise.

Il ring è un bestione, tutto ferro e legno da portare a braccia pezzo per pezzo con le madonne che crescono d’intensità con andamento direttamente proporzionale alla distanza fra il parcheggio e il centro del palazzetto. Qui, prima ancora di cominciare a montare, parte un altro rosario di quelli da non far ascoltare i bambini perché, insomma, non pretenderemo che non manchi nulla! Di solito il grande assente è un pezzo piccino piccino, insulso a vedersi ma assolutamente, incontrovertibilmente necessario per l’integrità strutturale di un’architettura che dovrà vedersela con una serata di sollecitazioni violente con il rischio di collassare portandosi dietro la salute di due bravissimi e irreprensibili ragazzi più un arbitro rigorosamente non cornuto, come solo nel wrestling li abbiamo, il tutto per una componente microscopica nelle cui mani sta il destino dell’universo.

Superfluo dirlo, la suddetta è di solito introvabile nel raggio di diciotto ferramente e costa più o meno come i ricambi di un concorde pur essendo poco più complessa di un bullone.

Sarebbe tuttavia troppo facile, se le complicazioni terminassero qui. Sono quasi dieci anni che ci portiamo il ring in giro per l’Italia e ancora esistono diverse scuole di pensiero su come si debba montare. Più di duecento eventi e ancora nessuno ha la certezza assoluta di come si debba fare. Abitualmente ci affidiamo al parere dei due o tre che hanno sempre diretto le operazioni, ma il luminare di turno è sempre in agguato con il proprio “mah, secondo me non si fa così”. Di per sé la cosa non sarebbe un problema, non fosse altro che la scheggia impazzita qualche seguace lo trova sempre, normalmente fra gli allievi che vengono a dare una mano per le prime volte, cosìcchè una parte complicata e faticosa di lavoro da disfare e rifare, con annessa gara di imprecazioni sconvenienti, non manca mai.

Manca poco. Torno nell’altra stanza, gli altri parlano fitto. Lucio mi dà una pacca sulla spalla e mi fa gli auguri per il match, mentre con l’altra mano passa un paio di gomitiere a Sergio. Mi levo i pantaloncini e la maglietta, stacco i pantaloni bianchi in finta pelle dall’attaccapanni e mi fermo un attimo a guardar i fulmini dorati che ho fatto cucire sui lati. Ha lavorato bene, la sarta, quasi quasi glie ne faccio fare un paio di riserva. Infilati i calzoni, faccio scivolare piano il piede negli stivali, faccio aderire le piante dei piedi alle suole e me li allaccio tirando bene i lacci. La giacca di pelle me la butto a spalle, da sbruffone, stasera voglio levarmela semplicemente aprendo le braccia per fare un po’ di scena. Tiro fuori dal borsone le boccette di vetro con i colori. Davanti allo specchio giro la testa per vedere meglio il lato destro e, intinto l’indice nel giallo, chiudo l’occhio tenendo la palpebra ben tesa e comincio a disegnare una stella. Con la testa in quella posizione la sensazione di avere la sabbia nel collo mi fa un ripasso di tutte le cadute, i colpi e le torsioni che mi sono regalato in tutto questo tempo. Dopo un po’ uno nemmeno ci fa più caso, ai dolori. La schiena scricchiola, le ginocchia se le piego troppo vedo le stelle e, se vogliamo parlare della testa, beh, ho vomitato più volte per i traumi cranici che per le sbronze del dopo show. Il problema non è prenderle, se non è niente di grave al momento ci pensa l’adrenalina, è quando ti svegli il mattino dopo che ti chiedi chi te lo fa fare.

Ecco, la stella è disegnata. Mi sciacquo la mano e prendo il nero per farle il contorno.

I colleghi ogni tanto me lo chiedono, chi me lo fa fare. “Che senso ha”, domandano, “conciarsi da pagliaccio e andare ad ammazzarsi di fronte a trenta persone?” Oppure “Ma almeno ti pagano? E la maschera ce l’hai?”

Perché, uno invece è furbo a passare le carte otto ore al giorno in ufficio? Ah, certo, li sì che ti pagano. Si comprano la parte migliore della tua vita per uno sputo però lì va bene! Poi magari non conti un cazzo e voglio vedere quanti si alzano la mattina entusiasti di andare a lavorare. Però, vuoi mettere? Sei uno serio,

hai capito tutto dalla vita, puoi indebitarti finchè campi e via così, ingoiare merda tutto il giorno e vegetare davanti alla televisione la sera perché, arrivati a un certo punto, sei tanto rincoglionito che se non sei occupato con il lavoro non sai cosa fare.  Almeno io un motivo per arrivare alle cinque e mezza di pomeriggio ce l’ho. Quand’è ora timbro il cartellino veloce come un fulmine e mi fiondo in palestra ad allenarmi. Pesi, addominali, cardio a pacchi che il fiato è importante. Poi, il lunedì e mercoledì, lezione. Ecco, io i ragazzi che alleno spesso non li capisco. Non sempre si presentano e spesso lo fanno come se fossero obbligati. Però si impegnano un sacco, a chiederti quando li fai salire sul ring. Certo, come no, mando a combattere cani e porci così oltre a fare brutta figura con il pubblico mi tocca fare una convenzione con il 118. Cosa sono, scemo? Io quando stavo imparando non vedevo l’ora che andare a lezione e quel che mi diceva il maestro me lo bevevo letteralmente. Questi arrivano già con un nome di battaglia e mille idee per il costume. Misurate un chilometro quadrato di tatami con il muso, dico sempre, e poi si comincia a parlare di show.

Sono pronto, mi lavo le mani, mi infilo i guanti senza dita e vado a riporre i colori nel borsone giusto in tempo per la musica che segna la fine della pausa. Fuori dallo spogliatoio incrocio Black Dog, il mio avversario. Tira dritto verso la tenda d’ingresso.  Parte la sua musica, una sbruffonata goticheggiante fatta con l’organo. Si gira verso di me, indica l’arena con il pollice e mi fa segno che mi farà un culo così, poi si gira, scosta la tenda e va dal pubblico. Per due minuti sproloquia a microfono aperto su quanti mesi di ospedale mi farà fare. I fischi coprono persino la voce dell’annunciatore che, quando può di nuovo parlare, annuncia “Da Brescia, l’astro del quadrato, Johnny Rocker!”. L’attacco di Ziggy Stardust mi fa irrigidire come una molla compressa. La mia musica. Il mio momento. Aspetto uno, due, tre secondi, scosto la tenda a mia volta e vado incontro al pubblico che urla il mio nome. Ci saranno si e no cento persone, ma per me è il Madison Square Garden.

3 Responses to “(r)esistenza 2010 - Backstage”

  1. big one Says:

    Bella Ste’! Un bel crescendo e una descrizione della preparazione che ti porta diritta lì, insieme al wrestler. nello spogliatoio. Un racconto che odora di sacrificio col gusto della soddisfazione. Pochi cazzi, scrivi e descrivi bene. Bravo!

  2. Faust Cornelius Mob Says:

    Ti ringrazio, biggone! La versione per eventuali reading è tagliata, ma in fin dei conti da leggere in silenzio funziona anche questa versione lunga.

    Poi oh, il wrestling E’ sacrificio col gusto della soddisfazione…

  3. Faust Cornelius Mob Says:

    Grazie anche della bellissima immagine di The Wrestler, funziona benissimo.

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