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Savile Row - Il piano del successo (ma anche il basso e la batteria)

Categoria: Assaggi, suoni, visioni e letture, Savile Row di Stefano Cardinali
Postato da: Torquemada

Emerson, Lake e Palmer furono negli anni settanta l’espressione più commerciale del cosiddetto progressive rock. Nel 1970 il tastierista Keith Emerson lascia i Nice, il bassista e chitarrista Greg Lake si stacca dai King Crimson di cui era stato fondatore assieme a Robert Fripp e il batterista Carl Palmer abbandona gli Atomic Rooster. Dopo la prima esibizione dal vivo al Festival dell’Isola di Wight (sembra però che avessero già suonato una settimana prima davanti a tremila persone), i tre pubblicarono il primo disco intitolato semplicemente Emerson Lake & Palmer. Da quel momento la sigla ELP diverrà il loro marchio di fabbrica e, per i successivi quattro album (Tarkus, Picture at an Exibition, Trilogy e Brain Salad Surgery), garanzia di qualità fino alla metà degli anni settanta quando comincerà il declino del gruppo.
In quegli anni le opportunità di assaggiare un disco senza doverlo necessariamente comprare erano davvero poche. Alla radio c’era solo la Rai la quale, senza il pungolo della concorrenza, continuava ad essere un covo di conservatori e l’unica eccezione era Per Voi Giovani, programma nato dalla prolifica mente di Renzo Arbore, che da solo non bastava a soddisfare la nostra fame di scoperte musicali.
C’era la possibilità di recarsi in alcuni negozi di dischi che avevano cabine d’ascolto munite di cuffia e permettevano un’immersione nell’alta fedeltà. A Roma ne ricordo uno in Viale Giulio Cesare che mi sembra si chiamasse Consorti. Purtroppo questi negozi erano anche i più cari e quindi inaccessibili per le mie tasche di quindicenne sovvenzionate dalla sola paghetta settimanale. Dopo due volte che andavi, ascoltavi un disco e uscivi senza comperare, eri bruciato e non ti facevano più sentire niente.
Un giorno scoprii che a Piazza Pasquino, a cinquanta metri da Piazza Navona, qualcuno dalla mente illuminata aveva aperto un negozio dove si poteva ascoltare musica a pagamento. Era come entrare in un juke-box: versavi 200 lire alla ragazza all’ingresso e accedevi in una stanza tappezzata dalla moquette persino sul soffitto. Al centro del piccolo locale (avrà misurato a malapena venti metri quadri) si erigeva un parallelepipedo con dei riquadri con l’effige degli LP che potevi ascoltare. La scelta era abbondante: su ogni lato verticale del cubo erano inseriti almeno dieci, quindici album. Premevi la copertina del disco che volevi sentire e una spia corrispondente la segnalava alla ragazza della cassa. Lei prendeva nota della richiesta e quando arrivava il tuo turno metteva il disco sul piatto. Nella stanza non c’erano sedie e si stava buttati per terra tutti attorno a quel menhir musicale. Nel 1971 non esisteva il divieto di fumare neanche nei cinema e per migliorare “l’assunzione sonora” qualcuno si faceva pure qualche canna. Tra i frequentatori ricordo una coppia di ragazzi che incontravo spesso: lui biondo con la barba incolta e lei riccia senza un filo di trucco. Si sedevano a terra e cominciavano a baciarsi senza staccarsi mai. Finito il disco si accendevano una sola sigaretta che fumavano passandosela dopo un paio di tirate a testa e appena terminava l’intervallo riattaccavano le ventose tentando nuovi record di apnea. Io che non avevo la ragazza ero un po’ invisioso.
E così, nella primavera di quell’anno riuscii ad ascoltare Emerson Lake & Palmer. A parte Lucky Man - ultimo brano della seconda facciata, meravigliosa ballata che porta impresso il marchio di Lake - mi ci volle più di qualche passaggio per apprezzare le sonorità proposte dal gruppo: l’organo Hammond in primo piano, una base ritmica che spesso diventava protagonista come nell’apertura di Tank e il pianoforte di Emerson con inserimenti “fugaci” come in The Barbarian. Nel giugno dello stesso anno i tre pubblicarono l’album Tarkus. Lo acquistò il mio amico Moreno e questo non rese necessario passare un pomeriggio tra la nebbia dai contenuti erbacei del locale di Piazza Pasquino. Il disco era composto dalla suite che dava il titolo all’album che occupava l’intera facciata A e da sei brani sul retro. L’uso del sintetizzatore, moderatamente presente nel primo disco, qui si faceva più insistente ma mai fuori luogo e lentamente diventerà uno dei timbri di riconoscimento nelle loro opere. Va segnalato, a conclusione dell’album, Are You Ready Eddie? un rock’n roll che sembrava davvero fuori tema con gli altri brani ma che sottolineava ancora di più le infinite potenzialità delle miscele musicali di ELP.
Nello stesso anno, a distanza di pochi mesi, con un’operazione di marketing che oggi sarebbe da considerare suicida (assurdo pensare alla sovrapposizione di due lavori dello stesso artista sul mercato), i tre pubblicarono Pictures At An Exhibition, disco registrato dal vivo e rivisitazione rock dell’opera di Musorgskij. L’acquisto fu di mia competenza e nacque un amore vero. L’attrazione che provai non fu solo nei confronti di ELP che oramai apprezzavo ma verso un genere a me sconosciuto che i pregiudizi della mia adolescenza non mi avrebbero mai permesso di ascoltare.
Finalmente all’inizio dell’estate del ‘72 i tre arrivarono a Roma al Palasport. Nonostante la solita, pessima acustica, il concerto fu memorabile e ripercorse il già vasto repertorio del gruppo proponendo anche alcuni brani di Trilogy, quarta fatica di imminente uscita.
Anche in questo lavoro i tre si richiamarono ai classici con The Endless Enigma (part one), concepito con una portentosa fuga per l’organo di Emerson e, in maniera ancora più evidente, con Abandon’s Bolero ultima traccia della facciata B, pezzo costruito con lo stesso ritmo e  la stessa struttura del Bolero di Ravel ma elaborato con una melodia originale. Nello stesso anno ELP fondarono la Manticore, una nuova casa discografica che permetteva loro maggiore libertà artistica e il migliore sfruttamento economico dei loro lavori. Con questo marchio pubblicheranno anche gli italiani Banco e PFM.
Nel 1973 Emerson, Lake e Palmer sono di nuovo a Roma con un concerto allo Stadio Flaminio. Nonostante stavolta l’acustica fosse ottima ricordo la delusione a fine serata. Avevo avuto l’impressione di un’esibizione meccanica, uno spettacolo senza l’anima del”anno prima. Anche la solita performance di Emerson nel lunghissimo assolo che si concludeva con l’accoltellamento dell’organo Hammond da parte del musicista e che l’anno prima aveva mandato in estasi il pubblico del Palasport, anche quel mini show era sembrato posticcio, eseguito solo perché ventimila persone si aspettavano di assistervi.
La delusione provata al Flaminio però non mi frenò per l’acquisto di Brain Salad Surgery che uscì a fine anno. Pur non mancando di sorprendenti intuizioni come la suite Karn Evil 9 o la dolce ballata di Lake Still… You Turn Me On, il disco non mi convinse (molti lo considerano il loro lavoro più bello) e fu il mio ultimo acquisto in vinile delle opere del gruppo. Nel frattempo il piccolo negozio alle spalle di Piazza Navona aveva chiuso mentre le mie finanze avevano avuto un’impennata grazie a un rimborso spese di trentamila lire al mese che mi era stato concesso dalla nuova squadra di basket. Album di altri artisti andarono perciò a completare la mia raccolta personale evitandomi di elemosinare l’ascolto nei negozi di dischi. Che soddisfazione uscire da quel rivenditore in viale Giulio Cesare con l’ultimo album dei Genesis o dei Pink Floyd o magari con tutti e due contemporaneamente!
Dopo Brain Salad Surgery cominciò il declino del gruppo. Nell’estate del 1974 uscì Welcome Back My Friends triplo disco dal vivo che non aggiunse niente alla storia del gruppo.
In Works Volume 1, nel 1977, si cominciarono ad avvertire alcuni scricchiolii nell’unità dei tre membri, basti dire che delle quattro facciate che compongono il lavoro, solo la quarta è attribuita a ELP mentre le prime tre furono prodotte ognuna da uno dei componenti. Nello stesso anno uscì Works Volume 2, di nuovo un lavoro corale in cui vennero provate nuove strade (jazz  e ragtime) che però non lasciarono il segno.
Il definitivo canto del cigno con successivo scioglimento avvenne nel 1978 con l’album Love Beach: da dimenticare.
Nel 1991 Emerson, Lake e Palmer tentarono la strada della riunione sfornando tre dischi in tre anni ma con i quali non apportarono nulla di sostanziale alla loro carriera.
Alcuni anni fa, prima l’avvento dei lettori cd portatili, poi quello dei file mp3, mi hanno permesso di riscoprire il gusto della musica di Emerson, Lake e Palmer, originale nei timbri e nella formazione tastiera-basso-batteria ma raramente nelle composizioni. Da pendolare professionista mi tornava utile isolarmi dai chiacchiericci del treno con quei suoni che trenta anni prima mi avevano affascinato. Ed è stato con la maturità di chi quella musica la conosce a memoria che stavolta l’ho giudicata in maniera più distaccata, più obiettiva. Si trattò quindi di una furbata commerciale o di pura e sincera espressione artistica? È indubbio che di talento ne avessero da regalarlo anche ad altri, equilibristi dell’esecuzione con virtuosismi da lasciare allibiti, funamboli dello strumento, però… però, giusto per parafrasare un amico scrittore, non era musica che usciva dalla pancia, erano composizioni di testa. Tutto sembrava troppo pianificato, studiato a tavolino per creare meccaniche reazioni di piacere nell’ascoltatore, con melodie, sonorità ed esecuzioni finalizzate alla vendita dei dischi (si contano circa 30 milioni di copie). Al supergruppo va comunque riconosciuto il merito di aver sdoganato in maniera definitiva quella matrice classica che anche altre band avevano proposto senza però raggiungere gli stessi risultati.
E questo potrebbe essere l’argomento per un’altra storia.

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