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Savile Row - Speciale Pink Floyd (ep. 1)

Categoria: Assaggi, suoni, visioni e letture, Savile Row di Stefano Cardinali
Postato da: Torquemada

[Da una semplice chiacchierata sulla musica, da uno scambio d'esperienze sui concerti visti, dall'amore verso uno dei gruppi più importanti della storia del rock, può nascere un progetto di scrittura. In questo caso i protagonisti sono Massimiliano 'Zaphod' Lanzidei e Stefano 'BigOne' Cardinali che, parlando di Pink Floyd, hanno toccato l'argomento "concerto di Venezia". "Lo Show dell'Anno" gridavano i giornali, le radio e le tv. "Io c'ero" ha detto il primo, "io no" ha detto subito dopo il secondo, scuotendo la testa. Quando BigOne ha malcelato l'invidia con un "deve essere stato stupendo" e Zaphod ha risposto con onestà "beh, insomma", s'è venuto a creare un bel momento che, tutti e due, hanno ritenuto dovesse essere messo su carta - anche se virtuale -. Ed ecco, in poche righe, la genesi dello Speciale Savile Row sui Pink Floyd.]

[Un avviso agli utenti: AnonimaScrittori.it continuerà a pubblicare articoli, racconti e recensioni per tutta l'estate. Senza interruzioni. L'aggiornamento non sarà però regolare. Seguiteci, collaborate e fateci sapere cosa ne pensate perché ci aspettano delle belle sorprese in autunno.]

IO C’ERO. ECCOME.
di Massimiliano Lanzidei

Da Latina siamo partiti in cinque. Di mattina presto con la Ritmo del padre di Marcello. Lui alla guida, io sul sedile del navigatore, con la cartina in mano, Gino e Massimo sul sedile posteriore con Riccardo stretto in mezzo.
Con Massimo, Gino e Marcello i Pink Floyd li avevamo già visti l’anno prima a Roma. Stadio Flaminio. Due concerti. Io li ho visti entrambi. Loro solo il secondo giorno. Per tutti noi i Pink Floyd erano il mito. Non un mito. Proprio il mito. Per essere sicuro di esserci avevo comprato i biglietti per tutti e due i concerti sei mesi prima. E’stata la prima occasione in Italia in cui è stato possibile acquistare biglietti in prevendita tramite la banca. Il primo giorno utile ero alla sede centrale della Banca Nazionale del Lavoro, manco gli impiegati sapevano bene di che si trattava. Sicuramente sto capellone con l’eskimo che aspettava il suo turno allo sportello non faceva parte della fauna abituale della filiale. Ma sarei stato pronto a rapinarla la banca, se non avessero tirato fuori i biglietti. O a prendere in ostaggio tutti gli impiegati.
Questa storia dei Pink Floyd era cominciata sui banchi del liceo. Quando è uscito il singolo Another brick in the wall part II  io facevo ancora la terza media. L’avevo sentita dai cugini più grandi, quelli di Roma, mentre – durante una pausa nell’annuale pranzo di festeggiamento per l’anniversario di matrimonio dei nonni materni – stavamo nella macchina di zio Michele e loro – i cugini grandi di Roma – commentavano potenza e qualità dell’autoradio mentre mettevano le cassette che si erano portati di casa. C’era vera monnezza in quelle cassette, mi ricordo una versione di On the road again di un gruppo che si chiamava i Barabbas, un altro matto che suonava tenendo una sedia con i denti e, giuro, pure una canzone intitolata Wojtyla Disco Dance. Non sto scherzando. A casa dei miei, dentro qualche mobile ci deve essere ancora il 45 giri. Eh sì, perché io poi me li compravo, quello che piaceva ai miei cugini grandi di Roma era oro colato. Da raccogliere a piene mani per poi vantarmi con quei provincialotti dei miei amici che non avevano parenti nella capitale.
Come pure i modi dire.
“Una cifra”, per dire tanti, io lo conoscevo un sacco di tempo prima che diventasse di uso comune pure da noi. Anzi, spesso mi viene il dubbio di essere stato io a importarlo in agro pontino.
Comunque nell’autoradio in mezzo alla monnezza c’erano pure i Pink Floyd.
E i Police.
E la mia vita musicale ha preso una direzione di cui vado fiero ancora oggi.
Al liceo ci scambiavamo commenti. Tutti avevano fratelli più grandi con discografia a cui attingere. Io un fratello più piccolo cui – complice mio padre – avremmo poi sottratto la mancia della prima comunione per contribuire all’acquisto di un sofisticato impianto stereo. Mezzo milione per piatto, amplificatore e casse. Nel 1983. Uno sproposito. Diciamo quindi che in quei giorni io dei Pink Floyd avevo una cassetta – registrata da un collega di papà - che portava da  un lato Animals e dall’altro Wish you were here. Era solo l’inizio degli anni ottanta. I miei compagni più grandi sembravano saperne più di me, ma neanche tanto, e parlavano con le parole dei fratelli maggiori “Eh, ma che ne sai tu, i veri Pink Floyd erano quelli di Syd Barrett.” E mica c’era internet o tutte le pubblicazioni musicali che sono uscite poi che sapevi vita morte e miracoli di tutti quanti. Allora io dicevo “Ciò Animals, ci sta Syd Barrett?” Macché, facevano loro, prima, prima. E io: “Ciò Wish you were here, lì ci sta Syd Barrett?” Macché, prima prima. “Vabbè, allora registratemi qualche disco più vecchio, no?” E mi portano Atom earth mother, che è una palla micidiale, ma non lo puoi dire perché sennò ti aspettano fuori casa e ti gonfiano. “Ah, lì ci sta Syd barrett,” faccio speranzoso. E loro “no, no, ma che Syd Barrett” però hanno deciso i fratelli che i Pink Floyd di Atom heart mother sono comunque più veri di quelli che si sentivano alla radio.
Da questa impasse mi cava zio Franco - il padre del Torque - che per il compleanno si presenta con un bel pacchetto che indiscutibilmente contiene un disco. In vinile. I Cd ancora non esistevano, se non si è capito. Gli iPod non li sognavano neanche gli scenografi di 2001 odissea nello spazio. Apro il pacchetto e dentro c’è E già di Lucio Batttisti, appena sfornato e immesso sul mercato. S’è visto subito dalla mia faccia che di Lucio Battisti – pure se era stato a scuola con mio padre, e ogni tanto per far colpo lo dicevo, se capitava l’argomento – non me ne fregava un beneamato, e che quello non era assolutamente il disco che avrei voluto trovare nel pacco. “Però puoi cambiarlo con quello che ti pare,” fa mio Zio, perspicace, “già gliel’ho detto al negozio.” Il negozio era la Casa del disco – c’era quello e la Standa – all’epoca. La Standa era per i ragazzini e le femmine che si compravano i successi che davano alla radio o a Discoring. La Casa del Disco aveva tutto il resto, ma aveva l’inconveniente che i dischi sembravano sparsi a caso per il negozio. Erano catalogati, nei raccoglitori – invece che in ordine alfabetico – per casa discografica e per trovare il disco che cercavi ti facevi il segno della croce e andavi a caso. E quasi sempre il caso ti portava a dare un’occhiata alle copertine di Fausto Papetti che abbondavano di donne seminude.
“Avevo pensato,” faccio comunque titubante  a zio Franco sotto lo sguardo inorridito di mia madre che non riesce a credere a tanta indelicatezza, “di prendere The Wall dei Pink Floyd.”
S’è illuminato mio zio: “I Pink Floyd, ti piacciono i Pink Floyd, ma davvero, non ci posso credere, vieni con me, davvero ti piacciono i Pink Floyd, ma pensa che roba, andiamo dai facciamo un salto a casa.” E abbandoniamo il compleanno per prendere la macchina e arrivare fino a casa sua, dove lui scartabella dentro un armadio e tira fuori dei dischi e me li dà: “Tanto io non li ascolto più, figurati se tua zia me li fa ascoltare, prendili tu visto che ti piacciono.” E così entro in possesso del vinile di Animals, ma soprattutto di un doppio album che poi scopro essere la ristampa dei primi due dischi. E lì – nel primo dei due – il pifferaio alle porte dell’alba, The piper at the gates of dawn, è Syd Barrett. Solo un disco ha fatto il maledetto coi Pink Floyd! E una canzone del secondo. Ma porca troia, ce l’avevo. L’ho consumato quel disco. Prima sul vecchio giradischi di mio padre, poi sul prodigio della tecnica estorto al fratellino. Imparato a memoria. Perché me lo aveva regalato mio zio, perché c’era Syd Barrett,e perché era bello. Puttana miseria se era bello.
Comunque nell’85 i Pink Floyd si sciolgono. Dopo aver sputato fuori un altro disco.  Ormai non rimane che imparare a memoria tutto quanto. Conosco i testi delle canzoni meglio di Roger Waters, sono documentato, ci scambiamo i bootleg con le registrazioni dei concerti, e sogniamo spettacoli fantasmagorici che non vedremo mai. Fuochi d’artificio, enormi palloni gonfiabili, suono quadrifonico, le improvvisazioni strumentali lunghissime. Esce pure il film di The wall. L’ho visto sette od otto volte al cinema, arrivo alla quattordicesima visione in vhs e perdo il conto.
Poi – nel 1987 – si riuniscono. Non c’è Roger Waters, il disco è una mezza minchiata, ma è il nuovo disco dei Pink Floyd e ci fanno un tour mondiale. E vengono in Italia. A Roma. Ed eccomi alla filiale della Banca Nazionale del Lavoro a prendere i biglietti per tutti e due i concerti. Ecco perché.

A Venezia c’era casino già all’uscita dell’autostrada. Con la polizia a controllare a campione le macchine in arrivo. Stranamente a noi non ci fermano e arriviamo a Venezia Mestre abbastanza tranquillamente. Molliamo la macchina, memorizziamo la via, controlliamo gli zaini e raggiungiamo la stazione dei traghetti con facilità. C’è folla, ma non confusione. La traversata avviene senza problemi.
E’ quando ci avviciniamo a Piazza San Marco che la densità umana aumenta. Le vie di accesso alla piazza sono già bloccate, o almeno così ci dicono, ma noi infiliamo un vicolo e siamo dentro. Malediremo più volte la nostra fortuna.
Mancano cinque o sei ore all’inizio del concerto e c’è ancora margine di manovra per avvicinarsi un po’. Scavalcando gente seduta o sdraiata, chiedendo permesso ai gruppetti in piedi, facendo finta di dover riguadagnare una posizione persa per qualche improvviso bisogno fisiologico, ci spingiamo fino sul fianco del Palazzo Ducale. Lo spazio è transennato e protetto dalle forze dell’ordine per evitare che ci si possa introdurre nel Palazzo o nella Basilica.
Raggiunta una postazione tranquilla attaccati alla transenna ci decidiamo ad alzare uno sguardo verso il palco. E’ lontano. Su una chiatta in mezzo alla laguna. E messo di tre quarti rispetto alla nostra postazione. Non fronteggia direttamente la piazza, ma piuttosto il prospetto del Palazzo Ducale. Solo che davanti al Palazzo Ducale non ci sono spettatori, ma solo le telecamere per la ripresa della diretta televisiva e i riflettori e le attrezzature di scena.
Altri riflettori sono piazzati su tralicci sparsi qua e là in piazza. Su uno – proprio vicino a noi – si arrampica un fricchettone guadagnandosi una posizione invidiabile a mezza altezza. Poi sfodera da un tascapane un panino col salame all’aglio e inizia ad addentarlo.
Nel corso del pomeriggio la situazione precipita. Più di duecentomila persone affollano la piazza. Pare che altrettante girino per la città. L’amministrazione comunale ha abbandonato i Pink Floyd e il suo pubblico al proprio destino. Non ci sono bagni chimici. Gli esercizi commerciali sono tutti chiusi per paura dell’orda di barbari. Neanche i cassonetti per le immondizie hanno messo.
Come spesso accade nelle ore che precedono un concerto, il pubblico si muove di punto in bianco senza ragione apparente. Magari un gruppetto di persone delle prime file decide di averne abbastanza e si sposta per uscire. Subito qualcuno – che fino a qualche secondo prima era stato sdraiato a farsi una canna o un bicchiere di vino e a godersi il sole – scatta in piedi per occupare il posto lasciato vuoto. E così con un effetto a catena che provoca lo spostamento anche di migliaia di persone tutte insieme. Un veterano dei concerti come me o la maggior parte dei presenti non ci fa nemmeno caso, se ha voglia, anzi, approfitta della confusione per guadagnare posizioni e spostarsi in luogo più favorevole. A noi però la voglia c’era passata da quando avevamo visto la disposizione del palco.
Le forze dell’ordine però non capiscono l’origine dei sommovimenti e si innervosiscono e cercano di governare l’ingovernabile.
Un carabiniere cerca di convincere il fricchettone a scendere dal traliccio: “Dai che è pericoloso, vieni giù.” Quello – ormai ubriaco – in risposta (giuro) gli canta: “Che ne sai tu di un campo di grano…” Non rido e evito accuratamente di guardare qualcuno dei miei compagni o il carabiniere in questione. Verso il limitare della laguna la folla continua a ondeggiare. “Che ne sai tu di un campo di grano” continua imperterrito con il suo mantra il tizio arrampicato sul traliccio mentre il carabiniere – addirittura – prova a sporgersi per afferrarlo per un lembo dei jeans.
Il rumore dalle prime file si fa più forte. Pare che la polizia abbia caricato gli spettatori. Si alzano cori. Si urla per mantenere la calma. La sensazione è quella dei topi in trappola. Da una parte il mare, dietro una muraglia di persone. L’unica via d’uscita per noi è verso la transenna. Proviamo a parlamentare con gli agenti, cerchiamo di convincerli a lasciarci uscire dalla parte loro. “Fateci passare, non ce ne frega niente del concerto, passiamo attraverso la Basilica, usciamo dall’altra parte e ce ne torniamo a Latina.” Niente da fare. Di più. Calano le visiere degli elmetti e alzano gli scudi. Noi indietreggiamo dalla transenna e – ovviamente – spingiamo in direzione contraria. E’ un miracolo che nessuno venga sospinto in laguna dai movimenti della massa. Poi, dopo una serie interminabile di tira e molla, tutto si cheta. Nel frattempo si è fatto l’imbrunire. Siamo stremati e sudati. E il concerto è l’ultimo dei nostri pensieri. Lo staff inizia a provare le luci. Il traliccio vicino a noi – il fricchettone ha approfittato della confusione per dileguarsi – non dà il minimo segnale di vita. I tecnici cercano per un po’ di sistemarlo poi decidono che si può anche farne a meno.
L’orario di inizio del concerto si avvicina. Sappiamo che saranno puntuali perché c’è la diretta televisiva. L’atmosfera è quella del cinema prima della proiezione. La magia - che pure c’era stata nei concerti al Flaminio dell’anno prima - scomparsa. La laguna è punteggiata delle luci delle barche, ci sono gli spettatori – c’è chi ha pagato uno sproposito per un posto privilegiato in gondola – ma anche tanta gente che è lì per la festa del Redentore. Subito dopo il concerto sono previsti i tradizionali fuochi d’artificio di chiusura della festa. I veneziani di solito tirano l’alba ballando, cantando e mangiando, ma quest’anno ci sono duecentomila ospiti non graditi a invadere il salotto buono e non si sa come andrà a finire.

A vent’anni di distanza di quel concerto non ricordo nulla, a parte delle indefinibili macchie di luce a balenare sulla laguna lì dove con la luce del giorno avevamo intravisto il palco. Della musica pure non so dire. Ricordo che stavamo tutti in religioso silenzio e con le orecchie tese a cercare di carpire una parte dei suoni che arrivavano da un impianto di amplificazione totalmente imbavagliato dagli organizzatori che avevano paura di causare danni ai monumenti. Duecentomila persone che trattengono il fiato e strizzano gli occhi per cercare di scorgere almeno le ombre dei musicisti muoversi sul palco. Per novanta minuti. Interminabili. Alla fine non facciamo neanche in tempo a decidere se lasciarci andare in un applauso liberatorio e di circostanza che si scatena l’inferno. Sembra di essere a Saigon durante l’offensiva del Tet e invece sono solo i fuochi per la Festa del Redentore. Se il livello del volume della musica dei Pink Floyd era dieci, con lo spettacolo pirotecnico del Redentore arriviamo almeno a quattrocento. Illuminati da lampi colorati iniziamo a lasciare Piazza San Marco. Siamo duecentomila. Stanchi, assetati, insoddisfatti e non vediamo un bagno da almeno sette ore. Percorriamo a caso qualche calle e pisciamo contro un muro in ombra. Cercando di ritrovare la strada per la stazione incontriamo qualche bar, chiuso,  da cui – attraverso le grate delle saracinesche – i gestori vendono acqua e bibite. Cinquemila lire una lattina di coca. E sai cosa bevi. Andiamo avanti. Troveremo una fontanella e ci sembrerà di aver fatto tredici al totocalcio.
Arrivati di fronte alla stazione ci si offre uno spettacolo da tregenda. Per arrivare ai treni bisogna passare su un ponte. A prima vista sembra uno di quei film medievali in costume in cui due eserciti si fronteggiano. L’armata Brancaleone, per esempio. Nel nostro caso da una parte ci sono quelli che vogliono arrivare in stazione, dall’altra quelli che evidentemente si sono stancati di aspettare di salire su treni affollatissimi e vogliono tornare indietro. La situazione è bloccata. Non proviamo neanche a salire sul ponte. Alcuni temerari – visto che non riescono né ad andare avanti, né a tornare indietro – scavalcano le balaustre e scavallano l’impasse aggrappati sull’esterno del ponte. Noi ci godiamo lo spettacolo e recuperiamo un po’ di energie sdraiati per terra con gli zaini a far da cuscini.
Arriva voce dopo un po’ che c’è la possibilità di tornare a Mestre via terra. E’ la strada che costeggia la ferrovia. Seguiamo la notizia e iniziamo a camminare. Siamo in buona compagnia mentre percorriamo il Ponte della Libertà, e mai nome fu appropriato anche se l’ho scoperto solo ora con Google Maps. Ho scoperto anche che il tragitto  che abbiamo fatto non era di otto chilometri, come ci eravamo sempre detti, ma di dieci chilometri e ottocento metri. Più di due ore a piedi per raggiungere la macchina e crollare sfiniti sui sedili. In cinque. Marcello al posto di guida. Io su quello del passeggero. E gli altri tre pressati su quello posteriore. Riccardo – che è il più piccolo - in mezzo. Ci svegliamo alle prime luci dell’alba. Riccardo - che ha avuto la pessima idea, durante la notte, di svegliarsi e sporgersi in avanti per controllare l’ora dall’orologio del cruscotto, e Massimo ne ha approfittato per andare ad accoccolarsi sulla spalla di Gino – è completamente anchilosato perché ha dormito piegato in avanti con la testa appoggiata sui sedili anteriori.
Ripartiamo dopo esserci sgranchiti. Colazione la facciamo in autogrill. Al telegiornale diranno che i barbari hanno lasciato Venezia sotto un cumulo di immondizie, che alcuni monumenti sono stati danneggiati dal volume della musica, che il concerto è stato indimenticabile. Cerchiamo di concordare una versione da raccontare agli amici per nascondere la miseria della realtà, come quella volta che – di ritorno da Rimini – non avevamo avuto il coraggio di dire che non avevamo cavato un ragno dal buco e c’eravamo messi d’accordo sulle cazzate da raccontare una volta rientrati a Latina. Quella volta l’unico a uscirne bene era stato Gino che aveva avuto la costanza di tener fede alla sua versione tanto che sono sicuro che sia ancora veramente convinto di aver limonato in spiaggia con quella turista tedesca.
Sui Pink Floyd a Venezia invece ci siamo resi conto che non era importante quello che avevamo visto, ma che ci fossimo stati. E noi, puttana miseria, c’eravamo.
Eccome.

3 Responses to “Savile Row - Speciale Pink Floyd (ep. 1)”

  1. cameriere Says:

    che tempismo.
    il racconto dei movimenti di folla
    sospinta inopinatamente dalla polizia
    è quanto mai di attualità.

    comunque mi viene in mente una cosa:
    torque bello, non so se ti sei reso conto,
    ma tuo cugino s’è impossessato di parte
    della tua legittima quota ereditaria.
    cazzo, quei dischi sono tuoi.
    e io potrei aiutarti a recuperarli,
    se vuoi.

  2. mr_why Says:

    sto piangendo…
    puttana miseria, c’ero!

  3. zaphod Says:

    … e me sa che te fa ancora male la schiena…

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