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Savile Row - Un sogno per il paradiso

Categoria: Assaggi, suoni, visioni e letture, Savile Row di Stefano Cardinali
Postato da: Torquemada

[Stefano Cardinali ci fa fare un salto indietro nel tempo. E ci riporta insieme ai Led Zeppelin a Roma, allo Stadio Olimpico di una volta. Un ricordo che oscilla tra la realtà e la fantasia, dopo il famoso concerto del Vigorelli a Milano. Savile Row, quando la storia si fonde con la Storia del rock]

Roma, Stadio Olimpico, venerdì 30 giugno 1972. Sono le cinque e mezza di pomeriggio e sul prato ci saranno ameno 35 gradi. I venditori di bibite e gelati stanno facendo affari d’oro ed escono continuamente per ricaricarsi di merce. I cancelli sono stati aperti alle due e mezza e sono stato uno dei primi ad entrare. Stavolta gli organizzatori hanno fatto tesoro degli errori commessi l’anno scorso al Vigorelli di Milano: prezzi abbastanza contenuti ed ingressi aperti sette ore prima dello spettacolo per evitare resse.
Quando sono entrato ho visto il palco montato sotto la curva nord. È troppo distate e angolato rispetto al mio posto in tribuna e io, questo concerto, lo voglio vivere nella maniera più intensa possibile. Perciò, come faccio di solito al Palasport, ho scavalcato, anzi qui ho saltato il fossato che divide gli spalti dal campo di gioco e ho raggiunto il  prato. Nessuno ha cercato di fermarmi.  Sarà perché il posto al quale ho rinunciato costa duecentocinquanta lire in più.
Non mi sembra vero! Sto a venti metri dal palco dove tra poco saliranno i Led Zeppelin per il concerto che aspetto da sempre.

Sono le sette e lo stadio è quasi pieno: le due tribune e la curva sud (quella dei tifosi della Maggica) mostrano solo pochi posti vacanti e il prato è un brulicare di persone raccolte in gruppi che cantano e suonano la chitarra. Oggi nell’aria c’è pace e allegria, non corriamo il rischio di lacrimogeni come è successo a Milano un anno fa. Allora un centinaio di persone, a concerto iniziato, tentarono di forzare l’ingresso e la polizia rispose caricando e lanciando lacrimogeni. Il pubblico si accalcò addosso al palco. Il fumo dei candelotti si propagò anche all’interno del Vigorelli fin sopra al palco. Nonostante colpi di tosse e lacrime, i Led Zeppelin  riuscirono a portare a termine tre pezzi. Si arresero solo quando, forse a seguito degli scontri, venne a mancare la corrente.

Sono le nove. Il sole da un po’ è scomparso dietro la tribuna Monte Mario e la temperatura si è un po’ abbassata. Tra poco ci penseranno i nostri beniamini a rialzarla con le loro canzoni.
Nell’aria si respira l’attesa di quasi quarantamila persone (i giornali parleranno di oltre trentacinquemila biglietti venduti ai quali vanno aggiunti gli invitati e gli imbucati) ma si sente che la tensione è benigna e non sfocerà in violenza.
Alle nove e quaranta si spengono le luci dei riflettori e cala un silenzio totale. Nessuno respira più. Dal buio del palco giungono le prime note della chitarra di Page che introducono Heatrbreaker. Quando entrano la batteria e il basso lo stadio esplode in un carosello di luci multicolori. Finalmente ricominciamo a respirare e lo facciamo tutti contemporaneamente con un boato che supera i decibel provenienti dagli amplificatori. Se esiste la sindrome di Stendhal davanti ad un’opera d’arte io la sto provando all’ascolto di queste prime note. Ma non corro il rischio di cadere: sul prato stiamo tutti talmente vicini che chi fuma è costretto a tenere la sigaretta in alto per non bruciare chi gli sta accanto.
Il concerto prosegue con altri tre brani dei primi due dischi: Communication Breakdown, Babe I’m Gonna Leave You e Moby Dick col primo lungo assolo di batteria di John Bonham. Finalmente arriva il momento dell’ultimo album quello senza titolo che tra di noi chiamiamo “il quarto” seguendo la numerazione dei primi tre. The Battle of Evermore col suo mandolino ci conduce in un evo fantastico, da fiaba. Dopo gli applausi, per non farci sognare troppo, Plant e compagni ci riportano subito sulla terra  prima con Black Dog e successivamente, senza neanche un secondo di pausa, attaccano Rock And Roll. Ci stanno cucinando per bene con cambi di ritmo e di atmosfera. Ciò che trasmettono non è solo la musica che amiamo, è la partecipazione alla nostra gioia, sono nello stesso momento autori e fruitori assieme a noi del clima di soddisfazione che pervade lo stadio Olimpico.
Quando tutto sembra pronto per portarci verso il cielo, quando manca solo la Scala Per Il Paradiso, i nostri fanno un passo indietro e attaccano Since I’ve Been Loving You. La chitarra di Page sembra chiedere perdono per la delusione che ci hanno provocato. Le note sono strazianti, quasi trascinate in ginocchio. Concediamo la grazia e ci godiamo uno dei brani più belli della band inglese. Ma stasera sembra non esserci tempo per lasciarsi andare e allora ecco Immigrant Song, Celebration Day, e successivamente Tangerine e Gallows Pole. Quando meno te lo aspetti, anche se sai che prima o poi dovrà succedere, dalla penombra blu del palco arrivano le note dell’arpeggio iniziale di Stairway To Heaven. Dal pubblico si alza un mormorio che esplode in tripudio. Sono sicuro che in molti sono qui stasera solo per ascoltare questa canzone. John Paul Jones alle tastiere con un timbro di flauto accompagna, quasi sottovoce, la chitarra a doppio manico di Page che sta per aprire alla voce di Robert Plant. Ed eccola finalmente la signora che pensa che tutto ciò che brilla sia oro, la donna che sta comprando la scala per il paradiso. Tutto l’Olimpico  adesso canta  questa storia consapevole che per ogni secondo di canzone lo spazio verso il cielo diminuirà fino a poterlo toccare davvero. Ed è ciò che accade alla fine del brano. La band ringrazia ed esce di scena. Noi con un piede in paradiso ci spelliamo le mani ma quasi due ore di concerto ancora non ci bastano e li richiamiamo sul palco.  I quattro escono e si riappropriano degli strumenti. Parte Whole Lotta Love dove succede di tutto: Bonham che inserisce un assolo di batteria di quasi dieci minuti, Plant  che dialoga prima con la chitarra di Page poi col basso di John Paul Jones quindi digressioni con inserimenti di altri brani e alla fine i quattro che si riaccordano per il finale. Sanno che ne vogliamo ancora e allora neanche fanno finta di uscire e attaccano Good Times Bad Times allungandolo tanto da sfinirci. È l’ultimo brano. I Led Zeppelin salutano, ringraziano in un italiano appena accennato e se ne vanno. A noi non resta che registrare le nostre emozioni in maniera indelebile per poterle rivivere un giorno raccontandole a chi non c’era.

Ecco, nella mia collezione di ricordi legati alla musica questo è il concerto idealizzato, quello che non c’è mai stato e mai potrà esserci. I Led Zeppelin, dopo l’esperienza al velodromo Vigorelli di Milano durante la manifestazione canora del Cantagiro (si, proprio quello con Rita Pavone e Gianni Morandi) quando furono costretti a rientrare nei camerini per colpa degli scontri fuori dai cancelli, come dicevo, i Led Zeppelin da quel lontanissimo 5 luglio del 1971 non si sono mai più esibiti in Italia.
La scala per il paradiso l’ho cercata e aspettata inutilmente fino alla fine del 1980 quando, in seguito alla morte di John Bonham, il gruppo di sciolse. Fu la conferma definitiva che solo un sogno avrebbe potuto farmi provare certe emozioni.
Oggi quel sogno l’ho raccontato e in fondo si è trattato solo di un’altra storia.

2 Responses to “Savile Row - Un sogno per il paradiso”

  1. Faust Cornelius Mob Says:

    Cazzarola che pugnalata al cuore il finale!

    Mio padre era alla festa nazionale dell’unità, in quegli anni, e dovette andare via la sera prima dell’esibizione dei Led Zeppelin.

    Davvero la musica rock è un ponte fra più generazioni, speriamo che non si perda mai!

    Grande Biggone!

  2. big one Says:

    è vero. è un linguaggio che accomuna generazioni diverse senza malintesi.

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