Anonima scrittori


Steve Jobs, Wu Ming, Antonio Pennacchi e… Altre Storie

Categoria: Editoriali
Postato da: Faust Cornelius Mob

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Dalla penna provocatoria di Graziano Lanzidei, alias Torquemada, un pezzo su Apple in relazione alle recenti esternazioni di Wu Ming. Fonte : Il Fondo, magazine di Miro Renzaglia

I Fab Four della scrittura collettiva

A me i Wu Ming piacevano. Q è un bel libro, un’affascinante sfida epistolare che racconta le vicende degli anabattisti, vittime della Riforma e della Controriforma. Un po’ meno 54, è discreto invece Asce di guerra, almeno per chi come me si aspettava, da sinistra, una frustata all’immagine edulcorata della Resistenza. I romanzi solisti – Wu Ming 1, Wu Ming 2, Wu Ming 4 – non mi sono piaciuti nemmeno un po’. Sarà che i fabolous four – da quando è uscito Wu Ming 3, sono rimasti in quattro, a dispetto della numerazione – da soli perdono un po’ di smalto, come se non riuscissero a ridare la stessa complessità agli scritti. Non so come lavorano, perché la loro scrittura collettiva – ma il discorso è valido in generale – è ammantata dal segreto un po’ come la ricetta della Coca Cola. Ma da un po’, dicevo, i fabolous four della narrativa collettiva italiana hanno perso un po’ di quello smalto che in passato ne era valsa la nomina a enfant terrible.

Ultima, rumorosissima, creazione di rilievo è il New Italian Epic. Da tempo la letteratura italiana aveva bisogno di novità e loro, volenti o nolenti, sono riusciti a spostare il dibattito teorico. Qualcuno potrà dire che si tratta di spostamento artificiale, che di fatto hanno inventato una teoria estetica ex post, che non c’è niente di avanguardistico nel sottolineare i caratteri comuni di oggetti narrativi non identificati aka romanzi, docu-romanzi e quant’altro. Mi piace pensare che la colpa sia stata, per una buona parte, di Antonio Pennacchi. Il premio Strega 2010 ha dimostrato come l’epica, l’epopea, il romanzo storico o quello che vi pare a voi, non devono necessariamente essere ispirate da fatti chissà quanto lontani sull’asse diatopico o diacronico. Ci sono tanti fatti, anche relativamente recenti, tutti avvenuti in Italia e in territori vicini a chi scrive, che possono essere d’ispirazione, fornire materiale letterario e metaletterario e metastorico e metaquellochevvepare. Perché andare a cercare qualcosa che non si conosce nemmeno alla perfezione? Ecco il limite di Manituana e di tutto quel filone letterario che attraverso l’America, sia del Nord o del Sud, vuol raccontare allegoricamente le questioni italiane. Non serve andare fin laggiù per raccontare le cose che abbiamo sotto gli occhi, ha dimostrato e ricordato Pennacchi. Punto e basta.

Non è possibile giudicare i Wu Ming soltanto dal punto di vista estetico-letterario. Perché chi ne ha seguito da vicino le gesta, come il sottoscritto, non può non riconoscere che, volontariamente o involontariamente, siano soliti prestare parecchia attenzione al marketing. Il loro pubblico è di nicchia – sinistra extraparlamentare o parlamentarista estrema – e i Wu Ming riescono a coccolarlo in maniere sempre nuove, affascinanti, alternative. Dai Disobbedienti fino agli Arditi del Popolo, non c’è un antro della sinistra ‘cattiva’ che non sia stato rivisitato, ristudiato o rivisto. Sempre con un occhio rivolto all’attualità, magari per analizzarla da un punto di vista diverso e insolito. Un passo sempre più in là di quel che pensa la massa. Segno di un forte spirito critico – che per carità va bene – ma che alla lunga, quando diventa sistematico, qualche dubbio lo suscita. Sempre sul pezzo insomma, per far parlare di sé.

E’ morto Steve Jobs, abbasso Steve Jobs.

Sono un accanito consumatore di prodotti Apple. Grazie a questi prodotti mi sono riappropriato del giusto rapporto persona-computer. Se devo scrivere un articolo: accendo il computer, apro il programma di videoscrittura, scrivo, salvo, spedisco via email e spengo il computer. Senza sapere una mazza di hardware, memoria, memoria virtuale, DDR e cazziammazzi. Tu compri un Mac e pensi a quel che devi fare, senza altri pensieri. Quando me lo disse il rivenditore autorizzato da cui l’ho comperato, pensai alla solita trovata pubblicitaria. Sono due anni che ho comprato un Mac e funziona come fosse il primo giorno. Forse per questo un po’ m’è dispiaciuto quando Steve Jobs non ce l’ha fatta. Forse per questo, quando vedo il suo volto, penso al genio che ha saputo coniugare tecnica, estetica e funzionalità. Se oggi i computer sono quel che sono, se nessuno ne può fare a meno, il merito è in particolar modo di Steve Jobs.

Non sto qui a ripetere per le millesima volta la sua biografia. Arriviamo alle conclusioni senza preamboli: Jobs non era un santo. Penso lo sapesse lui per primo. E trovo ridicola la condivisione postuma del suo discorso come se fosse la Bibbia, non mi piace la gente che s’è cambiata la foto del profilo di Facebook, non tollero quelli che la mela mozzicata – detta così mi ricorda un volgare coro da stadio – se la sono appiccicata un po’ ovunque. Ci mancano solo i tatuaggi, ma non posso escludere che qualcuno l’abbia già fatto. Per farla breve, non sopporto la beatificazione di Steve Jobs. Come non sopporto chi, specularmente e per gli stessi motivi di chi lo beatifica, è adesso pronto a depredare le sue invenzioni, ribaltandole di senso. Cercando di demonizzarlo ad ogni costo. E magari rovescia la mela, così come i satanisti rovesciano la croce. La Apple diventa le Bad Apples. Può esser satira questa? Parodia? Pastiche? C’è qualcosa di artistico o di estetico? No. E’ marketing, e pure di seconda mano.

I Wu Ming, che per tutta l’estate avevano parlato di libri, hanno avviato una campagna – due post in nemmeno 5 giorni – attraverso la quale prima hanno denunciato Apple e Amazon di sfruttare i lavoratori, riprendendo spunti altrui. Ci sono le pratiche antisindacali di Amazon come i suicidi nella fabbrica dove vengono fabbricati iPhone, iPad ecc. E fin qui, niente di male. Avrebbero potuto far di più, ma ognuno parla di quel che vuole. Poi, solo cinque giorni dopo, hanno partecipato alla campagna di Steve Workers e delle Bad Apples (le mele marce). Perché se Jobs significa ‘lavori’ allora Workers significa ‘lavoratori’. E rappresenta gli sfruttati di tutto il mondo, dal bambino che cuce i palloni in qualche sperduto sobborgo in Asia alla trentenne laureata statunitense costretta a lavorare nei call center. Tutto è diventato più chiaro. Da quel che dicono, sembra che questo Steve Workers sia il fratello piccolo di Luther Blisseth e il cugino di San Precario. Come se stessimo parlando di Barbie e Big Jim. Personaggi collettivi, intellettuali al grado estremo, pure un bel po’ provocatori, che hanno sempre il loro fascino sulla nicchia della sinistra extraparlamentare. Identità collettive, strutture virtuali, battaglie perse in partenza che garantiscono successo sì, ma solo d’immagine. Per rifare il verso a Jobs, è come un cloud della personalità. C’è un profilo remoto che ognuno carica sulla sua persona quando non ha il coraggio di dire o fare cose che pensa in maniera diretta. Duri e puri, grazie ad una maschera virtuale. Se gliel’avessero detto a Jobs, chissà che si sarebbe inventato. Ti firmi San Precario o Luther Blisseth e passa la paura. Come se io mi chiamo Lanzidei e qualcuno, quando morirò, si inventa Graziano Lanzidiavoli. Ecco, se dovesse mai accadere, tirategli una zampata ai coglioni da parte mia.

Siamo alle solite. Si cerca di parlare dell’Italia passando, in questo caso, per gli Stati Uniti. E si tenta di fare quest’operazione quando gli argomenti d’attualità lo consentono. Come se Steve Jobs fosse vissuto un solo giorno, come se la Apple non fosse già un colosso. Come se in Italia non avessimo altre cose, altrettanto gravi, a cui pensare. Nei giorni in cui il co-inventore della Apple esalava l’ultimo respiro, a Barletta quattro donne sfruttate morivano per il crollo di una palazzina pericolante. Morti bianche, una dopo l’altra, un’eccidio sotto gli occhi di tutti a cui in troppi, al momento, riservano solo trascuratezza e menefreghismo. I Wu Ming hanno preferito accodarsi al carro dello sfruttamento dei lavoratori negli States e in Cina – come se fosse una novità e come se coinvolgesse solo imprese come Amazon e Apple –, proprio quando poteva fare più rumore, comportando un ritorno di immagine. Non c’è nemmeno il peso di chi deve portare un messaggio terribile al Mondo. Che la Cina e gli States non siano il paradiso dei lavoratori era risaputo. Fa piacere che la notizia si diffonda.

Non sarebbe stato più corretto spendere qualche riga sui morti nostrani?

Perché altrimenti viene il sospetto che si sia passati dall’internazionalismo operaio alla paraculaggine.

3 Responses to “Steve Jobs, Wu Ming, Antonio Pennacchi e… Altre Storie”

  1. Lorenzo Filipaz Says:

    Mi sembra che non sia stato molto ben compresa quella serie di commenti di Wu Ming. Il focus non era tanto sui lavoratori sfruttati in Cina o in America quanto sul feticismo per la merce QUI ad Ovest - in Italia, feticismo per il marchio Apple in quel caso. Ecco, mi sembrava più una riflessione sull’attualità di certe annotazioni di Marx più che una demonizzazione di Steve Jobs, si provi a rileggere quelle note da questo punto di vista, diventa molto più interessante. Poi il loro è un discorso che si ricollega ad un punto di vista critico nei confronti della santificazione di Internet (spesso operata da soggetti come i grillini per dire, ma sbombardata continuamente su TV e giornali, vedi http://jumpinshark.blogspot.com/2011/11/breve-infelice-elenco-di-espressioni.html ). Trovo le analisi dei Wu Ming sempre molto interessanti, un po’ meno le soluzioni che propongono, che mi paiono invece molto più frettolose e irrisolte…
    Comunque mi pare fuori luogo tirare in ballo le morti di Barletta, mutatis mutandis (o semplicemente a cazzo di cane), per assonanza con i suicidi alla Foxconn. E mi sembra anche improvvido associare questa critica di tipo pragmatico a quella letteraria che lei rivolge a Manituana (e che peraltro mi trova perfettamente d’accordo! Sono cresciuto leggendo Pavese, naturalissimo quindi provare estraneità per contesti così lontani geograficamente e storicamente parlando - ma forse qua è proprio questione di estetica: preferire un approccio “naturalista” e contemporaneo ad uno più tendente all’allegoria storica/esotica.. oppure è una questione di formazione, loro si dichiarano amanti della prima ora del cyber-punk per dire, e prima ancora di Ellroy e della letteratura di genere d’oltre-oceano).
    Trovo anche abbastanza superficiale parlare dei nomi collettivi come Luther Blissett come un ombrello deresponsabilizzante… una prospettiva ex-post che applica una logica da internet (tipo i nick farlocchi e anonimi) ad un discorso estetico, filosofico e politico sull’identità/de-territorializzazione (Deleuze era molto amato) che la performance Luther Blissett ha creato (con precise radici nell’avanguardia post-situazionista europea e italiana) in un epoca in cui internet era una roba per ben pochi e si usavano ancora le BBS. E poi sta baruffa tra Anonima Scrittori e Wu ming (=senza nome) mi ricorda quasi le legnate tra Arditi Rossi e Neri al termine della grande guerra che si contendevano lo stesso elettorato… vediamo di ricomporre la frattura e lottare insieme, no? Sta diatriba tra autarchici e internazionalisti mi pare un po’ tirata per i capelli in questo caso.

  2. Lorenzo Filipaz Says:

    che figura di m…, in velocità non ho visto che l’articolo è riportato e quindi il mio rivolgermi al suo autore è totalmente ridicolo… potete non rapprovarmelo così lo riscrivo con la giusta cognizione?

  3. Torquemada Says:

    Non ti preoccupare Lorenzo. L’autore sono io, co-fondatore di Anonima Scrittori. Quindi il tuo gran bel commento non è fuori ‘luogo’. Anzi. Magari lo riportiamo anche su Il Fondo - sempre se è di tuo gradimento - per riprendere un dibattito troppo presto abbandonato. Grazie.

    P.S.: Sto preparando una risposta non superficiale. Ti chiedo solo un po’ di pazienza.

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