Anonima scrittori


Storia di Karel di Antonio Pennacchi - Due estratti

Categoria: Antonio Pennacchi, Storia di Karel
Postato da: zaphod

[Storia di Karel, il nuovo romanzo di Antonio Pennacchi, è in libreria. L'Anonima Scrittori ha seguito passo passo la genesi e lo sviluppo di quest'opera e - come di consueto con le opere del nostro "Anonimo più conosciuto" - ne continueremo a seguire le vicende editoriali da vicino. Di seguito potete leggere la storia del testo raccontata da Antonio Pennacchi nelle note conclusive del libro e uno dei capitoli della prima parte in cui si illustra il mondo in cui si svolge la storia. Per esere aggiornati sulle novità riguardanti questo libro, oltre alle pagine del nostro sito e del nostro forum, potete seguire le nostre pagine Facebook e il nostro account Twitter @Anonima_AS. L'hashtag dedicato è ovviamente #StoriaDiKarel.]

Storia del Testo

L’idea di questo libro nasce nel 2007 su sollecitazione di Graziano e Massimiliano Lanzidei dell’Anonima Scrittori, che mi propongono una sorta di laboratorio di scrittura collettiva via web sul loro sito <www.anonimascrittori.it>. Questo laboratorio produrrà a fasi alterne due capitoli – uno dei quali pubblicato come Cronache da un pianeta abbandonato sulla rivista “Nuovi Argomenti”, n. 42, 2008 – e i materiali per un terzo. Poi vide esaurirsi la sua spinta inerziale.

Tutti quei materiali vengono solo in parte qui ripresi. Alcuni dei personaggi però – nella loro prima ideazione e iniziale caratterizzazione – si debbono all’interazione diretta dell’autore con gli specifici partecipanti iniziali al laboratorio, e più in particolare: Erika con Simone Olla; Washington con Graziano Lanzidei; Sophie con Francesca Campanozzi; Jurij con Alessandro Paris; Dolly con Franca Forzati; Jacob con Jacopo Ninni; Ursula con Roberto Cerisano; Aldous con Aldo Ardetti; Foost con Stefano Tevini; Brainwell con Matteo Ninni; Brown con Bruno Di Marco; Angie con Massimiliano Lanzidei.

L’esperienza fu sicuramente interessante, divertente ed utile per me. Spero lo sia stata anche per loro. Grazie a tutti comunque, e grazie anche a Marco Berrettini, Fabio Brinchi Giusti, Angelo Camba, Arianna Ceraolo, Lorenzo Magnarelli, Simone Mani, Daniela Rindi, Gerardo Rizzo, Lucilla Zanazzi, che parteciparono anch’essi al laboratorio.

La paternità intellettuale dell’intero brand ‘Colonia’ – ideazione complessiva e particolareggiata; passato, presente e futuro dei personaggi; origini, presupposti, ambientazioni, contestualizzazioni; storia, geografia e corografia; trame e intrecci – è di Antonio Pennacchi, a cui vanno quindi attribuiti gli eventuali errori o manchevolezze e che ne detiene per intero i diritti d’autore, compresi quelli eventuali di sequel, prequel, eccetera.

Si ringraziano per l’attenzione, collaborazione e consigli: Richard Ambrosini, Stefano Cardinali, Antonella Cassioli, Filippo Cosignani, Piermario De Dominicis, Valeria Della Valle, Gino Devecchis, Angela e Arrigo Di Bello, Ivan Eotvos, Fabio Massimo Frattale Mascioli, Simonetta Furlan, Leopoldo Gamberale, Beatrice Gatti, Luciano Lanna, Giuseppe Mancini, Alessandro Marchionni con la i, Luciana Mattei, Carlo Miccio, Francesco Moriconi, Michele Paolelli, Alessandro Piva, Stefania Renzetti, Massimo Rosolini, Stefano Savino, Paolo Scardovelli, John Thornton, Riccardo Zefferi. Un grazie particolare a Roberto Cerisano; Franca Forzati; Lorenzo Magnarelli; Graziano, Massimiliano e Riccardo Lanzidei; Alessandro Paris; Stefano Tevini. E naturalmente Franco Cardini, per il generoso prestito da san Tomaso d’Aquino.

Libro I - capitolo 2. Erika

Il nostro era l’ultimo pianeta ai confini della galassia. Dopo di lui, solo il buio. La Federazione decise di colonizzarlo cent’anni fa, come grandiosa testa di ponte da cui partire - al di là del buio - all’esplorazione e conquista delle altre galassie. Il centro della nuova Colonia - pochi edifici in tutto - fu insediato al limite della faglia che divide il deserto da una pianura rigogliosa, oltre la quale, a una sessantina di chilometri, ci sono i monti. Al di là del deserto invece - ad altri sessanta chilometri -
c’è il mare. Ed è dal mare ai monti che la nuova città fondata avrebbe dovuto espandersi.

Ma i progetti all’improvviso cambiarono. I bilanci federali - secondo il nuovo quadro politico - non consentivano più follie e la Federazione smontò il Varco da cui sarebbero dovute sbucare dall’iperspazio, ogni secondo, le flottiglie d’astronavi; rimpatriò nei pianeti d’origine le migliaia e migliaia di tecnici e coloni che aveva portato fino qui, e se ne andò.

Un piccolo gruppo però - circa trentamila persone - volle per forza restare e non ci fu verso di spedirli via. Erano i nostri Padri - i primi Coloni - che al limitare del deserto si attestarono su quel minuscolo centro urbano contornato di fattorie, chiamandolo tout court “la Colonia”.

L’energia prodotta dalle fonti rinnovabili è pochissima e rigidamente razionata. Ma non ce n’è altra, essendo come si sa bandita da millenni in tutta la galassia quella chimico-organica inquinante, mentre anche la rinnovabile dipende fortemente - per la sua captazione e trasformazione - dall’approvvigionamento di materie prime e pezzi di ricambio che qui proprio non arrivano. Qui c’è solo la legna dei boschi e il lavoro manuale, in una società chiusa a sviluppo zero - decrescita perfetta - con giorni che si susseguono sempre uguali. O almeno così era fino a che non scomparvero i bambini.

Non c’è mai stata però regressione culturale. Ogni anno vengono scaricati e conservati nella Sfera i file d’aggiornamento dello scibile umano. Sappiamo in teoria tutto ciò che si sa nel resto della Federazione Galattica - anche se poi in pratica non ci serve a molto - e quel minimum di energia che pure si riesce a produrre, viene riservata prioritariamente alla formazione dei giovani e alla sanità pubblica; le nostre sale operatorie non hanno nulla da invidiare ai migliori centri della galassia. E se poi d’estate si registra un piccolo surplus d’energia, allora qualche volta la sera viene riattivato il cinema all’aperto. Altrimenti c’è l’osteria, o i racconti dei vecchi, le arti marziali e quelle d’amore. Oltre, ogni tanto, un circo.

Erika la strega - il piccolo Brown non entra mai da solo nel suo emporio; lei è amica di sua madre, ma lui da qui gira al largo, ci entra solo se ci sono anche i suoi compagni Myrna e Hutch -
Erika la strega è l’unica che riesca a percepire nella notte la sommessa decelerazione dei razzi, quando i circhi atterrano. Sente quasi la polvere - come per sesto senso - sollevarsi dallo spiazzo mentre la nave si posa dietro l’Intendenza.

“Sono arrivati”, si sveglia di soprabbalzo e s’alza - con il marito Martin che scalcia ringhioso nel letto - a riempire con cura il suo carrettino di liquirizie sia lunghe che corte, e poi arachidi, nocciole, semi tostati e salati, ceci, lupini, mandorle caramellate, biscotti, torroni e amaretti. A destra c’è la macchinetta per lo zucchero filato e sotto il ripiano un cassetto per riporre l’incasso: “Una volta con il circo si facevano dei soldi”, le diceva sempre la suocera.

Ma anche stavolta l’hanno lasciata restare lì, davanti all’Intendenza - indisturbata - solo finché nel primo pomeriggio è cominciato l’arrivo dei bambini. Allora gli inservienti del circo l’hanno cacciata: “Lo zucchero filato ce lo vendiamo da noi. Che ci siamo venuti a fare se no, fino qua?”

“Ma chi vi ci ha chiamato?” stava per rispondergli lei, quando subito era arrivata Ursula a redarguirla: “Te ne devi andare, hanno ragione loro”.

“Chi?! Gli zingari?”

“Sì. Se non fossero nomadi non verrebbero nemmeno loro, o te lo debbo rispiegare io? Solo un nomade deve per forza andare, almeno una volta nella vita, anche nel punto più sperduto dell’universo”.

“Se no non gli danno il diploma?” aveva riso sarcastica Erika.

“Eh!”

“Va bene. Ma domani ti spezzo, in palestra”. Ha dovuto togliere l’ancora e tornare all’emporio in fondo allo stradone di palazzo K, proprio davanti all’ingresso degli scantinati dove c’è la palestra.

Il marito Martin - all’emporio - stava come lo aveva lasciato il mattino: seduto al tavolino vicino all’entrata, con lo sguardo fisso oltre la vetrina, senza dire una parola esattamente come il padre, quando lui e Erika erano bambini. Martin gli si metteva vicino a rifarne le mosse e come il padre si muove di lì qualche volta solo per spostare la sedia sulla veranda ed incollare le spalle al vetro. Da piccolo invece stava rannicchiato sull’ultimo scalino, con i gomiti sulle ginocchia e i pugni chiusi sotto il viso.

“Ma di che mi sarò innamorata?” si chiede ogni tanto Erika, scordandosi evidentemente di quella volta che in ginocchio, in mezzo allo stradone, lei giocava in cerchio con gli altri a bottiglia. Lui - Martin - non giocava. Stava sul suo ultimo scalino con la testa tra le mani e neanche la guardava. Ma neanche a scuola la guardava, e quando la madre la mandava a comprare le bustine per l’acqua effervescente e lei lo salutava, lui mai un cenno. Mai una risposta.

Anche quel famoso giorno osservava fisso e torvo la punta delle sue scarpe, mentre nella strada la bottiglia girava girava… fin che lentamente si fermò dinanzi al piccolo Alain dagli occhi azzurri, che poi sarebbe morto colpito dal fulmine quella notte che dopo il liceo - al nostro primo turno di servizio nella guardia - tracimarono i valloni e fummo inviati di soccorso ai campi di steli. La folgore lo ghermì sull’argine e Alain precipitò nel vallone. Ne ritrovammo il corpo il giorno dopo, là dove i fiumi scompaiono nel deserto.

Ma quella volta della bottiglia a Erika si era fermato il cuore, nel pregare i Due Soli che il piccolo Alain scegliesse lei - c’era anche Ursula che lo voleva allora; tutte lo volevano, Alain - e il suo cuore riprese a battere solo dopo che, ignorata Ursula, Alain si fermò piegandosi davanti a lei. Erika radiosa gli offriva già il viso a ricevere il bacio, quando d’improvviso si ritrovò nella polvere, tramortita a terra da un pugno sulla testa. E subito si ritrovò d’incanto disamorata d’Alain: “Martin mi vuole bene” scoprì, vedendolo furente, con i pugnetti ancora stretti, puntare verso il piccolo Alain che indietreggiava.

Scattò Ursula a difenderli entrambi, in posizione di kama-te: “Mettiti con me”, sfidò Martin, “se hai il coraggio”.

“Fatti gli affari tuoi” la scansò Erika prendendoselo per mano, mentre il vento all’improvviso le sapeva di mare. Ecco come si era innamorata.

Lui però non parla mai - neanche una parola - parla solo lei. Pure troppo. E per farla stare zitta, lui le ridà ogni tanto un pugno sulla testa. Ricominciò poco dopo sposati - stavano nella cameretta sopra l’emporio, a fianco a quella della madre di Martin - una sera che faceva freddo ed Erika aveva acceso la stufa con un librettaccio tutto consumato di un filosofo antico su cui Martin aveva dato la sua tesi di laurea: “Illiceità ontologica del progresso e apologia della decrescita nella gnoseologia reazionario-esoterica delle comunità arcaico-primitive“.

“M’hai bruciato De Benoist!” strillò Martin - le ultime parole, secondo alcuni, di senso compiuto - e le ridiede un pugno sulla testa.

Lei non si sa che le prese; lo abbracciò spingendolo sul letto e fece tutto lei a cavallo, quella volta, per la prima volta. Lo sbranò come una tigre, anche se dopo pochi colpi il fuoco le si era spento: “Ma che sto facendo, io, qua sopra?”. Non le andava più e stava per scendere. Lui la tenne per le gambe e “Tum!“, un altro pugno in fronte. E lei si riaccese.

Ora passa le giornate a tentare di parlargli da dietro il bancone: “Martin, mi senti? E sì che mi senti… Mi passi quel bicchiere? Martin, mi rispondi? Parla almeno a tuo figlio”. Macché. Una tomba. E il figlio Moricòn sta venendo su come lui. Musone e taciturno. Sempre seduto anche lui sullo scalino, sempre a guardare tutti di traverso come suo padre Martin, che quando la moglie Erika gli porta per caso un bicchierino di quel liquore giallo che distilla dalle erbe - e che tutti perciò  chiamano il liquore della strega - lui la fissa a lungo negli occhi a scandagliarle fino al fondo la coscienza. Poi si rimette a guardare il vuoto. E la gente viene, beve, ride, compra e scherza come se lui non ci fosse. E nessuno di noi peraltro c’è, per lui.

Solo Aldous si informa. Chiede a Erika come sta suo marito, le chiede se parla e se lei si ricorda della madre di Martin.

“No”, vorrebbe rispondergli lei, “ci ho vissuto dieci anni assieme, ma non mi ricordo di mia suocera”. E invece risponde “Sì”, e Aldous va avanti con i ricordi suoi, di quando da piccolo andava tutto il giorno in giro dietro al padre - “Uno sfaticato come lui” dice Erika - a perlustrare balza per balza e forra per forra la faglia sul deserto, in cerca di minerali. Dice che spesso, con loro, c’era anche Martin.

“Ma quando mai?” fa Erika.

Mai trovato niente, comunque.

Aldous poi voleva fare il giornalista: “Ma come vuoi che campi qui anche un fulgore di giornalista, se tutti sanno i fatti di tutti prima che con fulgore succedano?”. Lui, ogni discorso che fa, ci deve sempre mettere la parola fulgore - chissà che gli sembra - e spesso la gente lo chiama proprio Aldous Fulgore. In ogni caso lavora a giornata dal vecchio Foost, quando lo chiama, o nelle fattorie. Ma soprattutto gira per i bar. “Soprattutto il mio”, dice Erika, “a chiedermi ogni volta se mi ricordo di quel fulgore di mia suocera. Uno zingaro come quelli del circo, mentre la moglie è a casa appresso alle figlie, povera Sophie che manda avanti da sola la famiglia”.

Ma Aldous è anche l’unico che ordini due liquori della strega, li porti al tavolino e si sieda davanti a Martin; e se non ha i soldi le dice “Segna”. Poi ne allunga uno all’amico ed inizia a parlare della vecchia miniera abbandonata e delle gallerie dove solo loro due sarebbero entrati da ragazzi. Ma Erika fa segno di no agli astanti: “Fesserie. Chi lo alzava Martin da piccolo, dal suo scalino?”

Quello però lo sta a sentire con lo sguardo sempre fisso al di là della vetrata, fino a che, andando via, Aldous gli promette ogni volta: “Vedrai che prima o poi lo troviamo, io e te, un fulgore di filone nuovo, e soddisferemo ogni bisogno di materie prime. Ci faranno con fulgore Eroi colonici”.

Solo allora Martin abbozza un sorriso e gli esce, in un fruscio: “Ciao”.

“Prima o poi scappo via anch’io con il circo”, dice a tutti ogni giorno Erika.

“Ma quelli mica se la pigliano…” dice invece ogni volta Hutch al piccolo Brown, mentre con Myrna escono dall’emporio.

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