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Sventrami - Storie di Roma capitale

Categoria: Assaggi, suoni, visioni e letture, Interpretazioni
Postato da: zaphod

conciliazione

[Francesco Moriconi, Anonimo Scrittore, ma soprattutto archeologo, affronta con la consueta leggerezza e profondità uno dei luoghi comuni sulle trasformazioni urbanistiche della Roma degli anni trenta del ventesimo secolo: gli sventramenti fascisti]

1.

Ero ad una cena, qualche sera fa. Non so se avete presenti quelle cene in cui gli ospiti non si conoscono tra di loro ma tutti conoscono il padrone di casa. Una cena in uno spazio aperto, cucina a giorno, sedie scomode e faretti. Tutti fanno i cordiali e si mostrano amichevoli; con un certo savoir faire fingono di essere interessati ad una nuova, senz’altro stimabile, conoscenza. Ecco, io in queste occasioni misuro la mia inadeguatezza e il mio desiderio di fuggire è direttamente proporzionale al passare dei minuti.
Ho commesso un grave errore quella sera. Da subito. Durante l’antipasto in piedi ho partecipato a una conversazione semiseria sul fascino del centro storico di Roma e mi sono lasciato sfuggire quello che penso davvero. Non bisogna mai farlo alle cene coi faretti. L’ho detto. Ho detto che quel centro storico di cui si parla per tradizione, quello del popolo povero e solidale, dei presepi e del cinema non è mai esistito; è una bufala cui si crede per inerzia: ho visto la mia fine sul viso delle persone che erano intorno col cocktail Sanpellegrino. Li ho delusi. In un secondo ho impedito loro di dire come doveva essere bella la Roma preunitaria, di maledire gli sventramenti fascisti, di sputare veleno su via della Conciliazione. Infatti, in totale consapevolezza, mi sono andato a rimpinzare di patatine e olive dolci lasciando ciascuno libero di commentare.
Più tardi, sarà stato il caldo oppure la sedia scomoda, il risotto non mi andava né su né giù. In queste occasioni generalmente applico una grande forza di volontà, mi concentro solo sul piatto, non ascolto più nessuno, bevo ettolitri di acqua e in qualche modo giungo al traguardo.
Mentre imperversava la lotta con i funghi qualcuno mi ha chiamato per nome; ce l’aveva proprio con me. L’ho dovuto ascoltare: “Dunque secondo te lo sventramento per via dei Fori Imperiali è stato corretto?”
Ora, non è che io ami dialogare con gli sconosciuti. Anzi, francamente non ho mai nulla da dire perché – chiarendo fuori dai denti – non sono interessato a quello che gli altri, specie se sconosciuti, hanno da dirmi. In ascensore guardo per terra tranquillo e a Latina cammino a piedi lungo percorsi che mi garantiscano il minor numero di incontri possibile.
Però, non mi devi provocare. A una domanda come quella uno può reagire in due modi: mandare a cagare tutti, che è la via che preferisco, oppure mettersi pazientemente ad argomentare, pagando il dazio di dover ascoltare obiezioni spesso totalmente prive di fondamento. Ho scelto questa seconda via, per una serie di motivi. custodia iphone outlet Il primo era il risotto.
Tanto per cominciare alla base della domanda si presume di poter giudicare la legittimità di interventi sul cosiddetto centro storico con criteri nati tutti nel dopoguerra; l’idea stessa di centro storico come unità ed entità oggetto di tutela è relativamente recente. Ciò che è scorretto oggi non aveva parametri di definizione netti negli anni Trenta. Non solo: pensare agli sventramenti come precipua iniziativa urbanistica mussoliniana è un luogo comune che vuole anche sottolineare una originalità progettuale, pur negativa, che su Roma era invece semplice continuità col passato, condita semmai da un pesante orpello retorico simbolico. Inoltre, l’intero giudizio non è influenzato esclusivamente dall’idea generale e generalista che si ha del fascismo ma anche dalla lunga, ininterrotta tradizione letteraria e iconografica sulla “Roma sparita” iniziata alla fine del Settecento, continuata sotto il regime sino ad oggi, sostanzialmente fuorviante.
Già a questo punto il risotto era diventato un mattone e i commensali mi guardavano come uno a cui è meglio dire di sì. Intellettuali atticisti (nel senso di Stefano Disegni).
Io, però, ormai ero partito e mi sentivo in dovere di approfondire e sviscerare la premessa.
Mentre nel fervore costruttivo delle città di fondazione si evincono moltissimi elementi di originalità nel contesto di un progetto serio e grandioso di politica agraria e sociale, l’intero gruppo di interventi su Roma è assolutamente all’interno di una corrente ben più radicata e antica che il regime ha percorso con scarse punte di peculiarità seppur con concreti e duraturi risultati.
Come al solito se il giudizio si forma senza toccare con mano gli oggetti e le fonti ma sulla base di ideologizzati stereotipi per lo più di carattere politico (e faziosamente politico) si guarda tutto dal buco della serratura ricavandone leggi universali a uso e consumo di un gruppo.
Quello di demolire interi quartieri cittadini per migliorare le condizioni di viabilità e di servizio di una grande città, ancor più se capitale, è un modus teorizzato agli inizi dell’Ottocento (bisognerebbe dire ri-teorizzato perché esistono esempi importanti anche nel Cinquecento o prima, ma lasciamo andare) e che ha trovato attuazione in gran parte del mondo occidentale. La storia della città veniva subordinata alle innegabili esigenze della modernità e del progresso. La meravigliosa Parigi che ci affascina, dipinta dagli impressionisti e descritta in molte pietre miliari della letteratura, è il frutto di una delle più radicali manomissioni di un “centro storico” che si sia mai vista in epoca moderna. Infatti tra il 1853 e il 1869 il barone Haussman, prefetto della Senna, mise in atto un grandioso progetto di ristrutturazione urbana finalizzato a promuovere il progresso sociale ed economico della città, riducendo il sovraffollamento dei quartieri centrali, migliorando decisamente la circolazione viaria e ponendo mano alla carenza di servizi. A questo si unì naturalmente un enorme movimento di capitali immobilizzati. Il progetto prevedeva (e attuava) estesissime demolizioni dei quartieri antichi, stratificati, la realizzazione di una nuova viabilità con strade ampie e dotate di servizi, l’isolamento dei monumenti di maggior pregio che ne risultavano “valorizzati”. Nelle intenzioni si inseguiva dunque un modello di città moderna, funzionale e contemporaneamente rappresentativa. Un presupposto certo non secondario fu anche quello di impedire la formazione di barricate e il facile attraversamento cittadino da parte dell’esercito in occasione di moti rivoluzionari e ribellioni. La spinta però verso un miglioramento delle condizioni igieniche e della qualità della vita fu preponderante. Furono creati parchi grandiosi, rifatta la rete idrica e l’illuminazione pubblica, costruite scuole, ospedali, biblioteche; furono riorganizzati i trasporti pubblici. È evidente come non trovasse spazio la teoria del continuum territoriale e urbano che rende così particolare il patrimonio culturale italiano e la cui formulazione è recentissima. Ma andiamo con ordine.
I grand travaux di Haussman hanno operato demolizioni per centinaia di migliaia di metri cubi, isolando i monumenti. L’intervento è stato preso a modello da numerosissime città europee: Lione, Marsiglia, Montpellier, Tolosa, Lille, Rouen, Avignone, Bruxelles. Criteri simili basati sull’apertura di nuovi grandi assi viari si trovano a Madrid, Barcellona, Stoccolma, Londra.
A seguito di questi avvenimenti una letteratura che ha avuto come capiscuola i romanzieri francesi, con epigoni in tutta Europa, ha fondato nella descrizione del popolo “scomparso” per via delle demolizioni, sul fascino di figure di basso ceto - ladri, puttane, mendicanti, piccoli bottegai .- tutta la sua fortuna. Con uno sguardo sedotto e pseudo documentario i loro romanzi hanno contribuito alla formazione di una idea tutta particolare del contesto sociale presente nei lembi di città scomparsa, contesto in cui è totalmente assente la lettura della complessità e dell’articolazione della società. I cosiddetti centri storici, nell’accezione attuale del termine, non erano altro che lo scenario urbano in cui viveva una variegata popolazione, fatta di ceti differenti, compresa l’aristocrazia, che lì svolgeva l’intero arco delle proprie attività. Tutti i documenti amministrativi contemporanei alle demolizioni (espropri, contratti d’affitto, vendite, analisi delle attività commerciali, censimenti delle aree da demolire) in qualsiasi città siano stati approfonditi lo mostrano inequivocabilmente. cover iphone outlet Anche a Roma.
Il modello Haussman fu concretamente applicato in tutta Italia negli anni immediatamente successivi all’Unità e poi con la proclamazione di Roma capitale. Con le stesse motivazioni, in particolare quelle igienico sanitarie, molte città subirono demolizioni e rifacimenti. La spinta verso la realizzazione di quartieri più sani, centri cittadini con uffici e negozi di livello, fomentava grossi interessi immobiliari; una temperie culturale fortemente influenzata dal progresso tecnico - specie nell’ingegneria civile (pensiamo a Eiffel come simulacro) - tendeva a favorirla. Ingegneri stradali e idraulici cominciarono a trasformare l’aspetto di ampi settori delle città italiane: argini di fiumi, reti fognarie, ponti e nuovi assi viari intorno ai quali poi venivano progettati gli edifici. Alla fine degli anni ottanta dell’Ottocento era stato previsto per Napoli un programma di risanamento con demolizioni su più di 800.000 mq. Problemi finanziari ne impedirono l’attuazione totale e la parte realizzata procedette a rilento. Comunque fu sventrata. E fu Matilde Serao a raccontare ilventre di Napoli, fatto di un popolino povero e solidale, distrutto e sconvolto per sempre. Facilitando, sopra ogni cosa, la cancellazione di una realtà assai più complessa in cui convivevano ceti di ogni estrazione (la popolazione interessata dal “piano” era stata suddivisa dai tecnici comunali in 7.040 appartenenti alla classe agiata, 34.194 alla classe media e 46.192 alla classe povera).
A partire dal 1885 molte altre città adottarono il piano di risanamento: Torino rase al suolo un terzo degli isolati della città vecchia, comprendendo aree da migliorare esteticamente più che igienicamente.
Milano, seppur in tono minore, eseguì sventramenti (per esempio nell’area del Duomo) in funzione di un nuovo assetto, accompagnati da letteratura varia sul venter di Milano.
Firenze demolì Ghetto e Mercato Vecchio nel fervore di un acceso dibattito sulla necessità di mantenere in piedi edifici storici di pregio artistico.
Accadde un fenomeno rivelatosi molto comune durante le operazioni post unitarie: da un lato la denuncia per la perdita di elementi storico artistici, dall’altra la descrizione dei quartieri come ricettacoli di ogni genere di feccia, portata avanti prima di tutto dai fautori delle demolizioni. Proprio i contenuti di tale letteratura di “fiancheggiamento” venivano pedissequamente ripresi dai cantori del “ventre”, volti in positivo. samsung custodia outlet Più che una fonte da cui trarre un quadro sociale questi ultimi costituivano dunque il primo contributo alla cancellazione di pezzi di storia.
2.

Poiché qualcuno cominciava a intuire, anche se solo in parte, dove volessi andare a parare, è iniziata a questo punto della cena una sassaiola di commenti rapidi e negativi, lanciata col solo scopo di farmi credere che conoscevano i miei dati (in verità in gran parte ricavati, oltre che dalle sterminate letture degli ultimi vent’anni, da un’ottima tesi di dottorato di Fernando Salsano: Il ventre di Roma, trasformazione monumentale dell’area dei fori e nascita delle borgate negli anni del Governatorato fascista, Roma, Università degli studi di Tor Vergata. Si scarica da internet; grazie all’aggiunta di una serie di elementi miei, di prima mano, ho dato la lettura interpretativa generale) ma che ero un giuggiolone privo di una visione “più ad ampio spettro”. Io a dire “a Napoli più di 800.000 metri cubi” e loro “sì, non è una cifra chiara, mi pare poi siano stati molto meno”; io a dire “Haussmann, Matilde Serao” e loro “be’ sì una parte della letteratura, però… no, scusa ti ho interrotto”. E via così. Cioè io, lottatore gastronomico silente (a parte l’errore dell’antipasto), stavo facendo la fine di un estemporaneo improvvisatore di comizi male informato. Prima mi provochi e poi te la vuoi squagliare? No. custodia samsung italia Adesso ascolti fino in fondo i motivi per i quali penso che senza il minimo dato oggettivo in mano sei un banale divulgatore di luoghi comuni nascosto dietro il Manifesto (quotidiano).
Veniamo a Roma. È ovvio che Roma rappresentasse la roccaforte di un potere temporale e oscurantista della Chiesa che lo Stato laico doveva abbattere. La “terza Roma” dopo quella dell’impero e dei papi doveva nascere come capitale dell’Italia unita. Non possiamo dilungarci qui sulla quantità di idee, ripensamenti e progetti mai realizzati che si riversarono nel dibattito sulle trasformazioni e sulla realizzazione dei nuovi necessari servizi, infrastrutture, uffici. È importante però ricordare che dopo la proclamazione della capitale e prima del fascismo furono approvati tre piani regolatori e otto leggi speciali finalizzati a riorganizzare completamente una città che passava da 200.000 abitanti prima di Porta Pia a 500.000. Con l’apparato statale s’era trasferito in città un nuovo ceto sociale che si doveva integrare con un popolo variegato e concentrato sostanzialmente all’interno delle mura Aureliane. Prima dell’Unità lungo le stesse strade cittadine, le ricche famiglie nobiliari vivevano di rendita nei palazzi intorno ai quali gravitava una popolazione dedita alle attività più comuni e che trovava sostentamento anche grazie all’enorme struttura ecclesiastica che si andava arginando (altro che “Roma sparita” di poveretti). Le trasformazioni dunque venivano eseguite in un clima di forte contrasto tra aristocrazia papalina, popolo che viveva grazie al flusso dei pellegrini e nuovo ceto medio “usurpatore”. Non solo: un irrisolto dualismo si sviluppò tra competenze del potere centrale e potere locale, che favorì un’espansione immobiliare (e una nuova edificazione in centro) che avvantaggiava le nuove classi medie o medio alte, lasciando fuori mercato gli strati più bassi della popolazione (è il fenomeno sociale definito gentrification). La soluzione a questo problema determinò la nascita dei quartieri che poi, a causa di ulteriori ampliamenti, diverranno le borgate degli anni ’50 e ’60 in una continuità che le operazioni fasciste hanno contribuito ad alimentare ma di cui non sono la causa originaria.
Accanto alle motivazioni di igiene pubblica e miglioramento della circolazione, accanto alla volontà politica di stabilire una superiorità dello Stato laico, non v’è dubbio che i lavori (con tutte le storture, le speculazioni immobiliari, lo scandalo della Banca Romana etc.) avessero origine dall’esigenza di far diventare Roma una moderna capitale europea, centro di uno stato che voleva dire la sua nel panorama internazionale. E sicuramente le attività diplomatiche vanno favorite attraverso una struttura urbana che garantisca circolazione, rappresentatività, servizi.
Uno dei primi interventi fu, e non poteva essere diversamente, la costruzione degli argini del Tevere. Era infatti intollerabile che alle soglie del XX secolo una città dovesse rimanere in balia delle piene; Raffaele Canevari progettò e realizzò l’intera opera, capolavoro ingegneristico indiscusso. Ora non so se qualcuno ha idea di quello che abbia voluto dire fare gli argini del Tevere quanto a sventramenti: chilometri di demolizioni lungo le rive, la sparizione del porto di Ripetta e di Ripa Grande, del teatro Apollo, della loggia della Farnesina. E migliaia di espropri. Dove saranno finite le famiglie che abitavano gli stabili demoliti? Nessuno ha approfondito ma a me viene il sospetto che si siano spostate in nuovi alloggi, o no?
Comunque, anche il Ghetto fu sventrato. La zona di piazza delle Cinque Scole fu rinnovata completamente dopo aver raso al suolo un gran numero di edifici e annullato vicoli e vicoletti. Furono lavori su cui era d’accordo anche la comunità ebraica e che culminarono con la costruzione della nuova Sinagoga nei primi del Novecento.
Per migliorare la circolazione furono realizzate nuove strade e ponti che comportarono distruzioni a carrettate e che necessitarono di lunghi dibattiti nelle commissioni comunali e in Parlamento. Il percorso di via Nazionale ad esempio non era di facile tracciamento, specie nell’ultimo tratto verso piazza Venezia e numerose furono le proposte prima di arrivare allo stato attuale.
Via Cavour, Via Arenula, Via Nazionale, Via Tomacelli, Via del Tritone, Corso Vittorio Emanuele Secondo: una nuova rete stradale necessaria, nello spirito del risanamento, di Haussmann, delle nuove teorie urbanistiche. E centinaia di migliaia di metri cubi di demolizioni, migliaia di espropri con conseguente necessità di nuovi alloggi. Nuove costruzioni, pubbliche e private, che somigliavano a quelle di Parigi, Vienna, Bruxelles, Berlino dettero un nuovo volto ad alcuni settori di Roma. Un nuovo centro, nel quale confluivano gli assi viari di Via Nazionale e Corso Vittorio, fu individuato nella zona di Piazza Venezia, dove il trionfo dello Stato laico doveva essere celebrato dal monumento a Vittorio Emanuele II.
L’edificio simbolo della crescita di una nazione nuova, laica, liberale che voleva contare in Europa venne costruito a seguito di una quantità di demolizioni spaventosa: il chiostro del convento dell’Ara Coeli, palazzine medievali, il palazzetto Venezia, la torre di Paolo III col suo passetto. Furono cancellate via di Testa Spaccata, via della Pedacchia e la Ripresa dei Barberi. I lavori per la costruzione di una degna capitale europea richiesero questo e molto altro (pensiamo solo all’espansione edilizia nei nuovi quartieri umbertini).
Il luogo simbolo del potere moderno era divenuto piazza Venezia, confluenza di via Nazionale e Corso Vittorio. Non a caso – e, direi, banalmente – fu il centro del potere del regime. Il palazzo e il suo famigerato balcone.
A questo punto la più giovane tra i commensali, capelli a caschetto, camicia di pizzo e infradito scamosciate, che evidentemente non stava più sulla sedia (non perché fosse scomoda, come per me, ma perché voleva sputarmi in faccia tutto il suo fideistico schieramento) mi ha detto: “Scusa, mi sembra un discorso craxiano. Siccome tutti demolivano allora hanno fatto bene pure loro?”
Ho bevuto l’ennesimo bicchiere d’acqua frizzante. Il riso nel piatto non c’era più ma ancora adesso giurerei di non averlo mangiato io.
Il problema di queste obiezioni è che, effettivamente, non c’entrano una mazza con quello che stai dicendo. Cioè tutti si aspettano che tu sia manicheo ma un conto è il giudizio storico e un conto sono gli elementi singoli, parziali, le categorie specifiche che sommate contribuiscono alla formulazione di quel giudizio. La storia ha già condannato il fascismo e soprattutto le sue espressioni più deteriori, ignoranti, terribili: le leggi razziali, la guerra, la limitazione delle libertà con la violenza. Ma se in nome di questo cancelliamo ogni altro parametro il nostro giudizio diventa talebano. Se noi volessimo giudicare il grande universo degli Stati Uniti - da tutti riconosciuto come un’eccezionale democrazia, la più antica - sulla base del perpetuarsi delle loro leggi razziali fino agli anni Sessanta (con residui fino ad oggi), sulla vocazione guerresca e interventista, sulla diffusione della pena di morte, sulle gravi carenze nell’assistenza sanitaria ai più deboli faremmo una buona operazione di analisi? O saremmo faziosi antiamericani?
Detto questo, a me sembra di poter affermare che l’intera politica urbanistica mussoliniana su Roma (ben diversamente dalle nuove fondazioni) non facesse altro che inserirsi nell’alveo già tracciato dai predecessori. Con la sola differenza che la capacità di intervento e realizzazione di opere pubbliche sotto il regime non ha avuto rivali, né prima né dopo. Costruire la città universitaria in tre (dico tre) anni, appena oltre le nuove arterie ottocentesche e nei pressi del quartiere umbertino di nuova realizzazione non è stato altro che un atto di continuità nell’accrescimento dei servizi e nel rinnovamento necessario a Roma capitale.
Gli interventi che hanno fatto più discutere (il piccone del regime, sventramenti, sciatti progetti come palcoscenico per le parate di regime sono tra i giudizi più comuni di architetti, archeologi, giornalisti, polemisti, per lo più antifascisti, soprattutto a partire dagli anni Settanta, con la concretizzazione dell’idea di centro storico) sono da sempre via dei Fori Imperiali, la via del Mare, via della Conciliazione, oltre a una serie di edifici e sistemazioni criticatissimi come piazza Augusto Imperatore. In genere le feroci opinioni pubblicate sono ascrivibili a pensatori che con la bandiera dell’antifascismo in mano si sono proclamati duri e puri svilendo ad alzo zero qualsiasi cosa sia stata prodotta, fatta, pensata in quegli anni.
3.

Partirei da via della Conciliazione, ricavata dopo la famosa demolizione della spina di Borgo. Atroce intervento, unanimemente criticato perché in un colpo ha ucciso l’effetto sorpresa progettato dal Bernini per la piazza di San Pietro e ha ossequiato la Chiesa celebrando la stipula dei patti Lateranensi.
La sostituzione della spina con una strada è un’intenzione antica, praticamente contemporanea all’ultimazione della piazza berniniana. Esistono progetti di fine Seicento (Fontana), Settecento (Morelli), Ottocento pre unitario (Valadier, Capranica), Ottocento post unitario. In particolare il piano regolatore del 1873 prevedeva l’abbattimento della spina di Borgo, approvato dal Consiglio Comunale nel 1881; fu la Giunta ad abbandonare il progetto perché non urgente e necessario ma solo “decoroso”. Nel 1886 il famoso Andrea Busiri Vici (membro della fabbrica di San Pietro) concepì un disegno ardito che contemplava la demolizione; un’altra proposta fu redatta l’anno dopo direttamente dal Comune cui si rinunciò per le proteste vivissime innescate da Domenico Gnoli che aveva scoperto nella spina una residenza di Raffaello. Di nuovo nel 1889 si cercò di riprendere i progetti del Valadier e dell’amministrazione francese ma una grave crisi economica costrinse ad accantonare l’idea. Ad Eric Gugler, nel 1915, si deve un ulteriore progetto per il completo smantellamento; subito dopo Armando Brasini ne propose uno che sembrava in gara aperta con Bernini.
Quando si arrivò agli abbattimenti reali, in epoca fascista, forse per la prima volta il piano aveva un senso ben oltre la mera necessità organizzativa: era il segno concreto dell’apertura dello stato laico verso la Chiesa cattolica dopo gli anni dell’emarginazione anticlericale. Si può essere d’accordo o no con la stipula dei patti Lateranensi (io personalmente li ritengo una iattura ma forse il consenso del mondo cattolico e l’impellente esigenza di risolvere l’ancora vivo conflitto sociale nella capitale tra ceti romani e ceti “usurpatori” non poteva trovare rapida soluzione se non in quel modo), fatto sta che l’idea sottesa all’apertura di via della Conciliazione era carica di significati politici e, tra tutti i programmi susseguitisi, quello era certo il meno astratto nelle motivazioni.
Lo sviluppo del senso della continuità del tessuto urbano e dell’importanza della stratificazione storica impedirebbero oggi un intervento del genere. All’epoca però non si trattava di uno “scempio” ma della concretizzazione di un’idea che era stata portata avanti per secoli e che, in certi casi, per fortuite contingenze non aveva ancora visto la luce. Negare questa storia è negare aprioristicamente la Storia e impedire il giudizio. È oscurantismo.
A tavola ormai eravamo tre, gli altri erano in terrazza a fumare e a guardare il panorama.
Mi sembra chiarita la volontà storica di far diventare Roma un simbolo adeguato al suo ruolo, all’interno di un disegno post unitario che si è tentato di completare durante il fascismo. Il famoso discorso di Mussolini, declamato in occasione della prima celebrazione del natale di Roma (21 aprile, istituito dal fascismo, si celebra ancor oggi, ovviamente senza particolari pruriti) individuava per la Capitale due tipi di problemi da affrontare nell’immediato: problemi della necessità e problemi della grandezza. Per i primi identificava la soluzione in case e comunicazioni, per i secondi – dipendenti dai primi – la rappresentatività monumentale: niente di diverso da quello che si era già teorizzato fin dalla Parigi di Haussmann. L’intero ceppo di critiche sull’incapacità ignorante del regime o sulla vanità delirante del Duce non si confrontano mai con un dato oggettivo: hanno delirato tutti gli amministratori europei per cento anni?
Ad ogni modo in Italia è stato il fascismo a far arrivare in porto progetti altrimenti senza soluzione, in linea con le direttive di intervento stabilite anche prima del regime. Con qualche differenza pratica, per esempio adottare provvedimenti specifici per sistemare gli sfollati a seguito delle demolizioni, al contrario di tutte le amministrazioni precedenti.
Mussolini riuscì anche nel compito di far accettare Roma e il suo primato a tutta Italia; ed è con il regime che finì il dualismo amministrativo della Capitale (potere locale - potere centrale) in favore del governo centrale. Sciolto il consiglio comunale, il sindaco Cremonesi rimase al suo posto dichiarandosi fascista. Il Governatorato da lui presieduto era una diretta emanazione del potere centrale dello stato fascista.
La politica degli sventramenti, è bene sottolinearlo, si realizzò col generale consenso degli ambienti culturali, degli architetti e degli archeologi, anche per la semplice continuità dell’alveo progettuale. Le critiche furono voci isolate e mai organizzate solidamente almeno fino agli anni ’40.
Già prima del fascismo, quelli che poi ne diverranno protagonisti come Piacentini, pur partendo da posizioni tipicamente post unitarie come realizzare una nuova città verso Termini alleggerendo la vecchia e salvaguardandola, non considerava tutto intoccabile e dichiarava che dove la bellezza non c’era bisognasse crearla (1916, altro che continuum del tessuto).
Gustavo Giovannoni assumeva posizioni ambigue: promuoveva il diradamento edilizio senza dare importanza al continuum ma scriveva articoli in cui affermava che l’arte non è solo nei monumenti maggiori. All’interno degli stessi articoli stabiliva poi la necessità di slarghi e grandi spazi dentro l’abitato.
In tutti i casi la considerazione del patrimonio era assolutamente conforme alla tradizione accademica. Anche gli ambienti culturali di tutte le città europee avevano voluto e tendevano all’isolamento dell’edificio storico senza garantire la lettura del contesto. Un generale consenso alle operazioni del regime venne da tutti gli stati europei e ci furono vere e proprie dichiarazioni d’amore per il Duce da parte di intellettuali come Strong, Curtius, Carcopino. cover iphone custodia outlet Gli esponenti della cultura italiana non erano solo servi - come si vuole semplicisticamente argomentare da parte di critici pregiudiziali - e, vedi Piacentini, avrebbero fatto le stesse cose anche al di fuori del regime, come già si era fatto a partire dal 1870 o prima (per esempio la piazza della colonna Traiana, ottenuta con sventramenti, è del 1811).
Il piccone fascista iniziò a lavorare nel 1924, con demolizioni dalla salita del Grillo al Vittoriano; il problema impellente era risolvere il rapporto del monumento a Vittorio Emanuele II con il resto del nuovo centro costituito da Piazza Venezia. Nel 1926 una serie di demolizioni attuarono la liberazione del Campidoglio e del teatro di Marcello in concomitanza con la realizzazione della nuova arteria di scorrimento: la via del Mare. Il passaggio della strada comportava molte demolizioni presso la Bocca della Verità, dove furono isolati diversi edifici archeologici. Le distruzioni tra Campidoglio e Teatro di Marcello erano già previste nel piano del 1909 (tanto per cambiare) ma gli si dava ora il valore di strumento per indirizzare l’espansione cittadina verso la costa. Bisogna sottolineare che anche qui è uno strumento di progresso cittadino a essere caricato di valori simbolici e propagandistici (Campidoglio, Rupe Tarpea, Teatro di Marcello) ancora nell’alveo della tipologia di interventi post 1870.
Ad uccidere la stratificazione storica in nome del solo intento di propaganda sono stati a mio avviso più la realizzazione di piazza Augusto imperatore (1934) con la demolizione dell’auditorium cittadino ricavato nel 1908 sul mausoleo di Augusto e, in una certa misura, Largo Argentina (1927-1929). Anche Corso Rinascimento in ultima analisi è un’opera all’interno di quella volontà di risanamento e di miglioramento della circolazione viaria stabilito nell’Ottocento.
C’è da dire che il piano regolatore redatto nel 1931 prevedeva ulteriori numerosi sventramenti che non furono mai attuati e che anche quello considerato dalla critica il padre di tutti, via dell’Impero, non vide il suo completamento.
La sistemazione dell’area dei Fori Imperiali aveva creato problemi e proposte sin dall’apertura di Via Cavour. Ulteriori punti nodali erano costituiti dal Vittoriano, con un rapporto ancora da chiarire tra i suoi fianchi e l’ambiente circostante, e dagli stessi resti archeologici. Un fardello via via accresciutosi e giunto in mano all’amministrazione fascista che, affrontando le scelte urbanistiche, diede alla soluzione della questione un valore simbolico e mitologico che ha travalicato di gran lunga ogni aspetto meramente tecnico. In tutta la fase post unitaria fino all’avvento del fascismo non era mai stato adottato un disegno unitario che definisse le questioni sospese di Via Cavour, dei Fori, del Vittoriano: la forza economica messa in campo per celebrare il decennale della marcia su Roma impose un ritmo impressionante ad un progetto che in un colpo metteva fine ad ogni intoppo passato. È talmente vero che via dell’Impero aveva prima di tutto una valenza funzionale risolutiva di una questione urbanistica, che il piano regolatore del 1931, pur non definendone con esattezza il percorso e facendola arrivare in zona San Giovanni, prevedeva per essa il nome di via dei Monti, senza alcuna evidente qualità propagandistica. Inoltre le prime demolizioni veramente finalizzate alla realizzazione della strada furono gli edifici sul fianco sinistro del Vittoriano che erano stati già espropriati nel 1913, non dai fascisti. Fu poi nell’estate del 1932 che si decisero espropri e demolizioni non previste dal piano regolatore del ’31, compreso il taglio famigerato della Velia che rese visibile il Colosseo e permise l’andamento totalmente rettilineo della via. L’inaugurazione avvenne il 28 ottobre 1932 col nome di via dell’Impero.
Ormai la cena volgeva al termine e io mi stavo stancando. Sono rimasto da solo con un signore di cui nemmeno ricordo il nome, un tizio che s’è tenuto uno strano cappello in testa tutta la sera: “e con Bruno Zevi come la mettiamo?” mi fa. “Guardi, Zevi ha voluto fare la famosa controstoria dell’architettura ma sul periodo fascista a Roma è stato assolutamente dentro la corrente, dentro i luoghi comuni” ho risposto senza pensare, con foga. Dal terrazzo qualcuno ha detto: “volete il caffè?”.
“Sì” – ho risposto in trance agonistica – “ma, per chiudere, non è del tutto vera nemmeno la storia che per colpa del fascismo e degli sventramenti si sono create le borgate a Roma”. custodia huawei p smart Sebbene un contributo importante sia innegabile nel processo di emarginazione dalla città di alcuni ceti più bassi, va detto che tra il ‘21 e il ‘31 la popolazione dei rioni diminuì del 2,47%. Tra il ‘31 e il ‘51 del 6,5%. Tra il ‘51 e il ‘61 del 34%. È di quest’ultimo periodo dunque la vera gentrification con speculazioni a go go e la tragedia archeologica di un suburbio romano devastato.
Ma ormai avevo perso mordente. Mi sono zittito di botto.
Venuto il momento dei saluti, davanti la porta, con la mano sulla maniglia il padrone di casa m’ha fatto: “non lo sapevo che eri di destra”.

3 Responses to “Sventrami - Storie di Roma capitale”

  1. cameriere Says:

    anch’o
    non lo avrei detto
    che eri fascio!

  2. cameriere Says:

    gran bel pezzo.
    me lo voglio imparare
    a memoria.

  3. zero71 Says:

    ☺ ☺ ☺

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