Anonima scrittori


Verso lo Strega - ‘Accanto alla tigre’

Categoria: Assaggi, suoni, visioni e letture
Postato da: Torquemada

[Inizio una serie di modeste recensioni di quei libri che, in questi giorni, i giornali hanno indicato essere tra i possibili candidati al prestigioso - e discusso - Premio Strega, il massimo riconoscimento letterario in Italia. L'Anonima, come abbiamo detto più volte, è protagonista, per motivi diversi, in due testi: 'Canale Mussolini' di Antonio Pennacchi e 'Accanto alla tigre' di Lorenzo Pavolini. Inizio dal secondo per due motivi: il primo lo sto metabolizzando pian piano come si fa con i libri buoni, buonissimi; perché Lorenzo Pavolini ci ha fatto una bella dedica]

La tigre di famiglia

«All’Anonima, scrittori amici motore e protagonisti di questa avventura. Lorenzo» questa è la dedica che ci ha fatto Lorenzo Pavolini, autore di ‘Accanto alla tigre’, pagine 242, edito dalla Fandango. L’Anonima Scrittori è tra i protagonisti di questo libro, possibile candidato allo Strega, che è stato presentato dallo stesso Pavolini insieme a Fulvio Abbate, Antonio Pennacchi e Aurelio Picca sabato 27 Marzo all’interno di ‘Libri Come’, la manifestazione che si è tenuta all’Auditorium.
L’ho letto proprio in vista di questa sua presentazione. Pennacchi ci aveva chiesto di accompagnarlo e mi sembrava brutto farmi trovare impreparato. L’avrei letto comunque, ma con un po’ più di calma. L’ho finito in soli due giorni, non solo per la scadenza ravvicinata - l’ho acquistato una settimana prima della presentazione - ma perché è un libro scorrevole, scritto bene. Al di là di ogni giudizio estetico o linguistico o strutturale - ché noi siamo povera gente, mezza studiata e non ci possiamo permettere grandi riflessioni senza cadere in macciaccherismi - c’è una cosa che mi ha impressionato più delle altre, un pensiero da cui sono stato sopraffatto. Anche approcciando con tutti i pregiudizi antifascisti di questo mondo, già dalle prime pagine il pensiero esce fuori dal libro e ti prende alla gola. «E se mio nonno fosse stato considerato un mostro?». «E se mio nonno fosse stato il protagonista di una delle pagine più buie e sanguinose della nostra storia?».
Il tormento di Lorenzo, la vicinanza di alcuni scrittori e dei suoi familiari, la casualità degli eventi che sembrano tutti mettersi in fila per fargli affrontare quella che tutti - da Enzo Siciliano ad Aurelio Picca, passando per Fulvio Abbate e terminando con Antonio Pennacchi, protagonisti del suo libro - pensano essere «la sua storia», sono fattori importanti che sembrano aiutare questa identificazione del lettore. Così ti ritrovi all’improvviso con un dubbio machiavellico. Perché ognuno di noi è abituato ad associare alla figura del nonno, se ha avuto la fortuna di conoscerlo, una persona anziana, posata, saggia. Quello che ti viene a prendere a scuola e la cui figura hai avuto modo di scorgere migliaia di volte tra quelle dei genitori dei tuoi amici. Lorenzo questa fortuna non ce l’ha avuta, almeno con suo nonno Alessandro. Lorenzo non l’ha mai conosciuto e tutto ciò che gli rimane sono gli atti pubblici, le commemorazioni di una parte politica odiata da quasi tutti e che - stando all’intervento di Pennacchi su Nazirock - tende a farsi odiare, restituendo alla società l’immagine negativa che si ha di loro. Magari, se possibile, anche più negativa di quanto gli altri se la potessero immaginare. Tanto per chiarire, Lorenzo è quanto di più lontano vi sia, per indole personale e convinzione politica, da Casa Pound. Ho avuto la fortuna di conoscerlo per (r)esistenza, di cui è stato giurato in due edizioni e mi sono fatto l’idea che sia una persona riservata, timida, educatissima, moderata. Competente, anche. Leggendo il libro ho avuto conferma. Nei confronti della figura di suo nonno Alessandro - che solo a scuola scopre essere quell’Alessandro Pavolini segretario del Partito Fascista Repubblicano impiccato a testa in giù a Piazzale Loreto insieme a Claretta Petacci e Benito Mussolini - approccia con timidezza, con paura. Cerca l’aiuto dei suoi amici scrittori - quelli di cui sopra - per capire come affrontare la questione, come liberarsi da questo peso che non riesce più a minimizzare. Si appoggia per fare leva e avvicinarsi alla tigre.
Quello che più m’ha colpito, e che rende il libro davvero interessante, è che Lorenzo sembra non essere interessato alla parte ‘pubblica’ tout court, ma cerca di capirne il carattere, la dimensione umana anche attraverso i comportamenti passati alla storia.
E infatti le parti che mi hanno più toccato sono state proprio quelle in cui Pavolini - Lorenzo - riesce a collegare a suo nonno ricordi privati, intimi. Bellissima, ad esempio, la lettera che il nonno scrive alla nonna. Insieme ci sono i ricordi dei genitori, qualche racconto comparso nei libri di altri e di cui è andato alla ricerca, negli anni, ritrovandosi una immensa biblioteca che, in casa, sembra assumere vita propria.

Ecco il pezzo dell’Anonima

Pag. 154

«Poi è capitata una coincidenza. Avrei dovuto parlarne con Uri al più presto. Grazie a una catena di eventi misteriosi accedevo al cimitero del Musocco e ora passeggiavo tranquillo nel viale centrale. Non solo, avevo accanto una tigre biondo cenere mansueta come un gattino e perlopiù indifferente alle persone che andavo incrociando. Lei indifferente a loro e viceversa.
Ma procediamo con ordine. Mesi addietro avevo accettato con slancio di vagliare i testi per un concorso letterario indirizzato agli utenti della rete e organizzato da un gruppo che si fa chiamare Anonima Scrittori, persone più o meno basate su Latina e provincia. Nume tutelare del gruppo è lo scrittore Antonio Pennacchi. “R-esistenza”, il tema prescelto per l’edizione in questione del premio, circa centotrenta i racconti pervenuti entro la scadenza. Ne avevo scartati almeno quaranta quando la mia attenzione è stata calamitata dal seguente incipit: “Non è possibile, non è possibile, mi torco le mani per la rabbia, ma perché è capitata proprio a me, cosa ho mai fatto di male, ma questa volta il Cappellano mi deve dare una risposta soddisfacente, non può cavarsela con la solita, e cioé che ognuno porta la propria croce, e rammentati di Lui, che ha portato la sua in piazzale Loreto, dovresti saperlo ormai che l’importante è Credere, oltre che Obbedire e Combattere, è ovvio.
Massì, lo so, però è una vita che Combatto contro di lei, e la Vittoria appare ancora lontana. Ricordo per esempio la settimana scorsa, eravamo capitati dalle parti del Cimitero Maggiore e io ho proposto andiamo a recitare una preghiera all’ultima dimore del povero Alessandro Pavolini. I miei amati ragazzi, fieri Giovani Avanguardisti, hanno aderito con entusiasmo, non mi aspettavo altrimenti, ma lei… Mi mancano le parole per descrivere lo sdegno che mi ha pervaso nel sentirla sbuffare ecchepalle, ancora con ’sto Pavolini!”.
Nonostante fosse molto semplice, mi ci è voluto un po’ a capire lo schema del racconto intitolato ‘Dritto e rovescio’ (l’autore in quella fase resta ignoto alla giuria). La materia mi impediva di procedere secondo ragione e scattavo avanti e indietro per quelle tre paginette. Ci ho messo mezz’ora a capire che si trattava di un classico conflitto madre-figlia. Nella prima parte (Dritto) a parlare era una donna che si disperava per esserle capitata in sorte lei, una figlia ’socialista’, e pensare che avrebbe voluto chiamare questa figlia ribelle e senza fede Rachele o Benita, proseguiva il suo vaniloquio: “Ah Duce, Duce mio, per fortuna ti è stato risparmiato il dolore di conoscerla; mi sanguina ancora il cuore se penso all’ultima cerimonia in ricordo dei nostro Morti, al cimitero, naturalmente (ecchermortorio, sempre con ’sto cimitero), iniziata come d’uso con una toccante Messa fra le lapidi officiata sempre dal caro Cappellano (ecchedove l’avete pescato ’sto prete, alla conquista di Addis Abeba?). Nella seconda parte (rovescio) era la figlia a prendere la parola ripercorrendo la stessa visita al cimitero in altra chiave: “Dopotutto lei lo sa benissimo quanto mi scassi ’sta storia del cimitero, con i loro morti dell’epoca del cucù, poracci, mica dico di no, ma si esagera con ’sta devozione funeraria, in più è in coppia con la sua amica Marisa, una tonta che si crede pure artista e piazza sempre sulle lastre assurdi mazzolini di fiori legati col nastro tricolore. Cosa? Dovrei dare una mano? Figurarsi, non mi passa neppure per l’anticamera del cervello”. E più avanti l’affondo finale: “In più c’era una bandaccia di nazi, due facevano pure i chierichetti! Mentre la pula fissava tutti con occhiacci così dai vialetti intorno. Alla fine del tutto, era ora, lei ha avuto il coraggio di dirmi i naziskin sono in fondo dei bravi ragazzi, hai visto come sono stati seri e compunti per tutto il tempo. Cosa?! Ho strillato fregandomene dei presenti, ecche sei fuori? I nazi bravi ragazzi, ma che dici?! E togliti quel basco nero dalla testa che fai ridere le tarme. Scherzavo, lo so che è il suo amato basco da Giovane Italiana, ma con lei non si può scherzare, come ti permetti, razza di senza patria!”…
Ero lì che riflettevo sul fatto che a me questo racconto sembrava il migliore fin qui letto, quando il telefono è squillato e Antonio Pennacchi mi ha detto che non era regolamentare inviare propri testi a un concorso di cui si è giurati. Veramente scorretto sei! Ripeteva con quel tono tutto suo, di chi ti manda volentieri affanculo per scherzo ma anche per davvero. Per gusto del confronto libero diciamo, retoricamente franco: eh no cazzo, intercala spesso, questo no cazzo! E il fatto stesso di dire cazzo accanto, mettiamo, a Proust, a lui che era stato operio prima e oltre che scrittore, dava una irragionevole soddisfazione, quasi un’ebbrezza.
Sapeva per certo che non ero stato io a scrivere quel racconto - e non solo perché a lui presidente di giuria erno già noti i nomi degli autori - e concordava con me che fosse uno dei migliori, forse da premiare, come difatti alla fine facemmo, in un pomeriggio invernale al teatro di Latina. La timidissima autrice esordiente Cecilia Bernardelli se ne stava in fondo alla sala e quando era stata invitata a venire a ritirare il secondo premio ex equo aveva mandato avanti qualcun altro.
Sapete come vanno questi premi, alla fine una pizza tutti insieme, giuria, assessori, premiati. Birra, vino, amaro, grappa. PIù d’uno, sulla scorta del racconto in questione, mi interroga sull’impressione che avevo riportato leggendolo: “La conoscerai bene quella tomba no?”. Provo a rispondere che al Musocco non sono mai stato, o meglio non sono mai entrato e… Si parte: gpl, rock and roll e via, sulla strada come vecchi fricchettoni fasciocomunisti. Alle quattro valichiamo l’Appennino, con tipica apoteosi a Roncobilaccio.
Alle 9 mi scaricano al Maggiore. Su su, vai avanti da solo!
Ecco com’è che passeggio ora in questo ampio viale che spacca in due il cimitero, e che, se non fosse per certi tempietti circolari, che in due momenti ne interrompono la prospettiva, sembrerebbe infinito. La tigre grigia che mi saltella agile accanto? Penso sia frutto dell’insistito dormiveglia, o della puzza di gas. Sul sedile posteriore della Multipla beige lanciata nella notte ho rimuginato il vecchio proverbio indiano secondo cui chi cavalca la tigre non potrà più scendere, se vuole domarla. E alla fine eccola al mio fianco, la tigre, gà piuttosto docile e domestica, e senza che ricordi d’esserle mai montato in groppa. Tigre di famiglia si sarebbe detta. L’impressione più forte che provavo passeggiandole accanto era un senso di separatezza, l’idea che in questa pianura padana di morti erano mescolate come in una piazza persone diverse, nemiche e amiche, ricche povere giovani vecchie, e il loro apparato funebre rispettava la varietà di statura, fortuna, cura parentale, impianto retorico; ma già questa linea retta che è il viale centrale del Musocco ne metteva metà di qua e metà di là. E ulteriormente separati in un campo rettangolare a duecento metri dall’ingresso sulla destra, il campo X appunto, c’erano le 1432 croci di pietra grigia dei caduti militari e civili dell’Rsi. Un cimitero dentro il cimitero. Circondato da una compatta siepe di alloro. Improvvisamente omogeneo, con le croci tutte uguali, ordinate nel loro susseguirsi regolare. Croci piatte e basse. Riportavano solo la data di morte. Questo sanciva la divisione dal mondo dei morti di fuori. Nome, data di morte, un numero, alcuni una piccola foto. La data di nascita restava sconociuta, da dimenticare. Erano morti tutti quanti nel giro di pochi giorni della primavera ‘45. Avevano certo intrattenuto, in alcune fasi della loro esistenza, rapporti anche stretti con altri morti là fuori, affari, amicizia, sesso, chissà cos’altro. E anche con molti di quelli che erano morti negli stessi giorni, senza per questo finire nel cimitero dentro al cimitero, con la sola data di morte da ricordare. Ma stavano al di là della siepe, annunciati da una croce più alta che l’Unione Nazionale Combattenti della Repubblica Sociale Italiana dedicava ai suoi caduti, vicino a una fontana per l’acqua dei fiori. Intorno alla base, ceri rossi, crisantemi, una pianta di ciclamini bianchi. Un campo curato di prato e vialetti stretti di ghiaia, quattro pini marittimi un po’ incongrui al centro, le croci spalle a spalle, le medaglie d’oro al valore militare (abbreviato v m), tipo Barracu e Borsani hanno un nastrino tricolore che le cinge in alto, ma anche altri come Bombacci o giovani ragazzi sconosciuti recano la stessa attenzione. Le croci più spoglie sono quelle degli ignoti. Infine trovo Pavolini Alessandro. Numero 1330. Una foto ovale in cui indossa il berretto con la visiera. E’ di profilo e ha la barba ispida. La data è quella maggiormente condivisa nel campoo X: il 28 Aprile 1945. In equilibrio sul colmo della croce due garofani: uno rosa e uno bianco.
La tigre si accoccola sull’erba, il muso posato sulle zampe anteriori incrociate. E giurerei che fa le fusa. Dell’Anonima Scrittori nessuna traccia. Allora accarezzo l’animale e gli racconto la storia di quella parte della mia famiglia che giace sotto questa lapide numero 1330.»

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