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Verso lo Strega - ‘Hanno tutti ragione’ e ‘The Father’

Categoria: Assaggi, suoni, visioni e letture, Interpretazioni
Postato da: Torquemada

[Continuano le modeste recensioni del sottoscritto - Graziano 'Torque' Lanzidei - dei libri che parteciperanno al più importante premio letterario italiano: lo Strega. Questa volta è il turno di due opere prime: 'Hanno tutti ragione' di Paolo Sorrentino, edito dalla Feltrinelli, e 'The Father' di Vito Bruschini, edito dalla Newton Compton.]

I pixel e Sorrentino e Bruschini

Quando guardi un film tratto da un libro, spesso esci dalla sala cinematografica con la consapevolezza che era meglio, di gran lunga, l’opera scritta. Aveva un respiro più ampio, una migliore caratterizzazione dei personaggi e non doveva rispondere – almeno non così pesantemente – alla dura legge del botteghino. Non sempre il regista, insieme con gli sceneggiatori, ha uno straordinario dono della sintesi: organizzare, in due ore di film, l’intreccio, il climax e i personaggi che si dipanano e si muovono in sette-otto ore di lettura. Spesso si scelgono le ‘scene’ sbagliate, spesso si tagliano i personaggi sbagliati, ancora più spesso si privilegia il sentimento rispetto alla storia. Così l’intuizione, quella crociana, risulta un po’ annacquata. Come dice Bersani, Samuele il cantautore, «solo la copia di mille riassunti». Tra i concorrenti dell’ultimo premio Strega ci sono anche i libri di due scrittori esordienti: Paolo Sorrentino e Vito Bruschini. Con i loro romanzi ‘Hanno tutti ragione’ (Feltrinelli) e ‘The Father’ (Newton&Compton), ribaltano completamente la questione che vi ho appena descritto. Prendono un personaggio dal film (Sorrentino) o più personaggi dall’immaginario filmico (Bruschini) e lo inseriscono all’interno di un libro. A questo punto la domanda è d’obbligo: qual è il risultato, a parti inverse? Verrebbe da dire: «sempre meglio il libro. Perché la storia ha un respiro più ampio, perché finalmente i personaggi hanno caratterizzazioni migliori, perché il libro non deve rispondere a strettissime logiche di botteghino». Non è così. Non siamo davanti ad un’addizione per cui, pur invertendo gli addendi, il risultato non cambia. L’effetto è molto più simile a quello di una foto, a bassa risoluzione, che viene portata alle dimensioni di un poster. Non può essere più considerata la stessa foto. Se la prima è definita e comprensibile, la seconda è sgranata e stiracchiata. Quello che vi rimane più in mente è il singolo pixel, ripetuto all’infinito in più colori.
Sorrentino, ad esempio, trascina nel suo libro Tony Pisapia, uno dei protagonisti del film ‘L’uomo in più’. Nel libro si chiama Tony Pagoda, nome d’arte Tony P., ed è sempre un cantante neomelodico, devastato mentalmente dalla cocaina e con una visione della vita cinicachepiùcinicanonsipuò. La straordinaria interpretazione di Tony Servillo è qui riproposta, a livello immaginario, con una rincorsa alla frase ad effetto, alla macchiette napoletane del tipo pizza pizza marescia’ e del tipo ‘na tazzuliell’ ‘e cafè, al susseguirsi di successi con le donne che «se voglio ti scopo, se non voglio non ti scopo», per citare non Sorrentino ma un ben più poetico mio collega di lavoro. Con l’aggravante che Sorrentino ogni tanto fa sfoggio di una cultura filmica e letteraria che non appartiene al protagonista, che proprio all’inizio, ammette di avere lo schifo per i libri. E allora le citazioni di Francis Bacon e di Dante, da dove saltano fuori? E, nonostante ci sia chi dica che la questione linguistica non è così importante, perché quando uno vuol scrivere in napoletano, non si va a sincerare di come si scrive in napoletano? E comunque, al di là delle questioni stilistiche – che noi sempre mezzi studiati siamo rimasti e non ci vogliamo avventurare in disamine formali - il risultato è: quello che stava bene in quaranta minuti di film, allungato per sette lunghissime ore, diventa quasi una tortura. E la terribile pratica diventa disumana quando si arriva alla perla delle perle. Un primo indizio: che nome viene dato ad un amore ormai irraggiungibile, idealizzato? Beatrice. Non soddisfatto, Sorrentino vuole proprio renderci trasparente il rimando letterario al Sommo Poeta. Inserisce quello che, in gergo da serie tv, si chiama «lo spiegone». A pagina 127 scrive: «Però gli occhi iniettano livore, come quelli del conte Ugolino. Fa due boccate, si aggiusta il pantalone e, come in un duello al rallentatore, prende ad avanzare verso di me, affamato come Farinata degli Uberti. Oggi tutto Dante. Va’ a capire perché. Forse perché l’inferno è davvero a pochi metri. Si sentono solo i suoi passi pesantissimi sul parquet antico di mio cugino. Un bel parquet, mica legname fasullo. Approda davanti a me, in piedi. I suoi genitali all’altezza del mio viso sofferente. Beatrice, forse in una maniera o nell’altra, adesso ti raggiungo. Non siamo lontani, Beatrice».

E adesso passiamo a Vito Bruschini e alla sua opera che cerca di raccontare la nascita e la proliferazione di un clan mafioso. Com’è? Prendete ‘Il Padrino’ di Francis Ford Coppola, mettetelo al sole e fatelo essiccare, toglieteci le interiora, la complessità, farcitelo con un bel po’ di luoghi comuni e avrete ‘The Father’ del giornalista e regista romano. A pensarci bene, basta prendere il titolo in lingua originale del film di Coppola – ‘The Godfather’ – per capire che il riferimento non appare solo in filigrana. E’ evidente, addirittura sulla copertina. Questa sembra, però, la versione laica, essendo sparite soltanto tre lettere, God appunto. Piccola particolarità: forse giocando piacionescamente con i luoghi comuni resistenziali, lo scrittore esordiente Vito Bruschini fa apparire i fascisti addirittura più infami, subdoli e violenti dei mafiosi che, almeno così pare nel libro, nel loro piccolo e storto una logica ce l’hanno. Una sorta di revisionismo dettato dall’antifascismo militante «senza se e senza ma» che rischia di apparire ridicolo e poco credibile. Altra particolarità: l’impaginazione del libro è anomala, rende faticosa la lettura e sembra costruita per evitare il superamento delle 500 pagine che pare siano, per le case editrici, le Colonne d’Ercole del successo commerciale (tranne che per Dan Brown et similia).
Sia nel primo caso (Sorrentino) che nel secondo (Bruschini) siamo davanti all’eterna riproducibilità non solo dell’opera stessa – le tante copie di un libro o di un film – ma dell’eterna riproducibilità delle stesse storie, magari alleggerite con successive semplificazioni.

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