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L’epica della bonifica

Categoria: Canale Mussolini, Interpretazioni, Pennacchi
Postato da: Torquemada

["Pennacchi, l'Agro Pontino e il fascismo sentimentale" è il sottotitolo della recensione di Valerio Magrelli su La Repubblica di oggi, 1 Marzo 2010, a pagina 40-41. Chi è Magrelli? Riportiamo breve nota biografica tratta da 'Storia e testi della letteratura italiana' - Verso una civiltà planetaria di Giulio Ferroni: nato nel 1957 si è imposto giovanissimo sulla scena letteraria, autore di una poesia astratta, intellettuale, originalmente postmoderna, in cui si intrecciano materiali corporei, spunti filosofici, motivi mitici, citazioni letterarie].

La Musa di Antonio Pennacchi è la provocazione. Con la sua foga, con la sua insistenza, questo scrittore batte da anni sullo stesso chiodo: mostrare come il fascismo possa essere una questione di ‘educazione sentimentale’. A ciò alludeva il concetto di Fasciocomunista, autentico marchio di fabbrica dell’autore, dal titolo del fortunato romanzo del 2003 da cui venne tratto il film Mio fratello è figlio unico. A ciò allude adesso il suo ultimo romanzo, dal titolo altrettanto emblematico di Canale Mussolini (Mondadori, pagg. 464, euro 20). Come se non bastasse, a rincarare la dose sta una dichiarazione posta ad apertura di volume: «Bello o brutto che sia, questo è il libro per cui sono venuto al mondo». E’ dunque su presupposti così tambureggianti e ambiziosi, che il lettore si addentra nell’opera (che per altro la Mondadori sta pensando di candidare al Premio Strega e che affronta un periodo storico diventato di nuovo soggetto-oggetto di ispirazione e riflessione narrativa, dai film ai romanzi). Al centro della trama stanno i Peruzzi del paesino di Codigoro, una grande famiglia le cui peripezie vengono ricostruite dall’alba del Novecento fino alla Seconda Guerra Mondiale.
Ma il vero nome e nume tutelare, è un altro: infatti, oltre che campeggiare nel titolo (in riferimento all’impianto di bonifica realizzato nelle paludi pontine), Mussolini compare anche nel racconto, come capo carismatico e dongiovanni impenitente. Così, cronaca domestica e Storia nazionale si intrecciano, contribuendo a delineare l’immagine di un fascismo ‘naturale’, presentato come un esito inevitabile e spontaneo nelle scelte di un gruppo sociale proveniente dai socialisti e dai sindacalisti rivoluzionari. Fasciocomunisti, per l’appunto: «Mica stavamo con classi diverse, almeno all’inizio. Vada a vedere il programma di San Sepolcro, noi eravamo semplicemente concorrenti enlla stessa classe di popolo lavoratore e si trattava solo di vedere chi è che comandava. E’ per questo forse che ci siamo odiati tanto, perché eravamo fratelli che si erano divisi. La gente non si odia mai con un nemico storico come si odia poi con i fratelli».
Ai discorsi, però, seguono i fatti, e fatti tanto gravi che uno dei figli del patriarca giungerà all’omicidio di un prete. Tra spedizioni punitive e riflessioni politiche, assistiamo alla nascita dei primi fasci di combattimento, alla marcia su Roma, allo scoppio della guerra civile e all’assassinio di Matteotti, cui fa eco la vita quotidiana di una famiglia di mezzadri. La creazione di un fienile, la bruciatura delle stoppie, la costruzione delle strade, l’allevamento delle vacche o delle api ispirano a Pennacchi alcune fra le pagine più riuscite di un libro il cui culmine è però rappresentato dal trasferimento dei ‘cispadani’ nel Lazio meridionale. A fare da spartiacque (è davvero il caso di dire) dell’intera narrazione, sta il grande esodo organizzato dal regime, che spinse trentamila veneti, friulani e romagnoli ad emigrare, intorno agli anni Trenta, nell’Agro Pontino. Il motivo di tale sommovimento è affidato alle prime righe del testo: «Per la fame. Siamo venuti giù per la fame. E perché se no? Se non era per la fame restavamo là. Quello era il paese nostro. Perché dovevamo venire qui?».
Con ciò arriviamo finalmente al cuore del romanzo. Perché se la Musa di Pennacchi più dirsi viva, ciò è appunto grazie alla sua personalissima occasione agro-pontina. E’ proprio questo invasamento, questo rovello a trasformare la provocazione politica in materia estetica, agendo con un intervento di fissaggio su sostanze altrimenti volatili. Ecco cosa fa di Pennacchi uno scrittore. L’immagine del Canale Mussolini diventa allora veramente il perno su cui si trova a ruotare l’intera macchina narrativa. Da qui il tono apertamente epico di certe pagine sulla colonizzazione. Sradicati dai loro paesi, i nuovi arrivati entrano subito in conflitto con i locali (primi fra tutti gli abitanti di Seze, dipinti come apaches), prendendo contatto con un universo ostile, sebbene assoggettato di recente al dominio dell’uomo. Davanti alle paludi bonificate, non mancano allora richiami biblici («il Mar Rosso prosciugato»), riferimenti ai Paesi Bassi («Ma questa è un’Olanda sterminata!») e ai Pilgrim Fathers («Ci hanno preso col Mayflower e ci hanno portato qui»), oppure accenni alla cronaca dei nostri giorni («Eravamo gli extracomunitari dell’Agro Pontino»). Sia chiaro: questo slancio è compensato da un attento lavoro di calibratura. Tutto il racconto, infatti, viene svolto da un personaggio senza nome, che si indirizza a un altrettanto misterioso interlocutore. In questo modo, le vicende vengono filtrate da una figura la cui identità, con un felice colpo di scena, verrà svelata soltanto nel finale. Benché il registro dialogico si faccia spesso troppo colloquiale (quando ad esempio si tratta di riportare le voci dei grandi personaggi storici), la presenza di questo portaparola assicura all’insieme una buona tenuta, e consente di seguire una struttura fatta di frequenti andirivieni cronologici.
Gli orrori della guerra chiudono la vicenda. Ma accanto ad essi, l’ultimo capitolo conosce un improvviso mutamento, con una storia di amore e perdizione che unisce un nipote del vecchio Peruzzi alla zia, una misteriosa allevatrice di api. Nel segno di una nuova rinascita, la Natura giungerà a reintegrarsi nella Storia, in una pacificazione conclusiva coronata dal sogno di una nazione ‘venetopontina’. D’altronde dove mai avrebbero potuto trovare requie i ‘fasciocomunisti’, se non in una regione dal nome altrettanto impossibile, doppio, contraddittorio?

2 Responses to “L’epica della bonifica”

  1. Il Fascismo è una questione di famiglia - 2 Says:

    [...] recensione al libro di Antonio Pennacchi, ‘Canale Mussolini’, che è stato già oggetto di valutazione da parte di Valerio Magrelli, poeta, su La Repubblica. Questa volta l’articolo è uscito su Libero, il 2 Marzo, a firma di Miska [...]

  2. Torquemada Says:

    Ho letto la recensione su Repubblica e trovo che Magrelli colga male due aspetti dello scritto di Antonio. Il primo è di ordine ideologico: si dice che Antonio Pennacchi, cito Magrelli, delinei “l’immagine di un fascismo ‘naturale’, presentato come un esito inevitabile e spontaneo nelle scelte di un gruppo sociale proveniente dai socialisti e dai sindacalisti rivoluzionari”. Per capire bene l’autore o almeno per avventurarsi in una conclusione del genere, Magrelli forse avrebbe dovuto leggere e citare, oltre che “Il fasciocomunista” e “Canale Mussolini”, anche altri testi dello stesso scrittore. “Fascio e Martello. Viaggio per le città del Duce”, tanto per fare un esempio. “Palude” giusto per capire che aria si respiri ancora oggi nelle terre che Antonio ha reso un luogo letterario, almeno a detta di Erri De Luca. Senza entrare troppo in vicende storiche complesse, ché Pennacchi racconta la storia, anzi l’epopea, di una famiglia, tra esse maiuscole ed esse minuscole, per capire come si passi dal sindacalismo rivoluzionario all’interventismo - costituendo un compatto fronte - basta leggere il Sabbatucci - Vidotto. Il volume è “Storia contemporanea, Il Novecento”. Esattamente a pagina 10. Si parla del fronte irredentista. A questo fronte, già composito, “si aggiunsero esponenti delle frange estremiste ed ‘eretiche’ del movimento operaio (fra i quali i leader del sindacalismo rivoluzionario Alceste de Ambris e Filippo Corridoni)”. Il secondo muore durante il primo conflitto mondiale e diventa una icona del fascismo. Amico amico col Benito Mussolini dai tempi dell’Avanti e con cui aveva condiviso ogni singola scelta fino al momento della morte. “Si ma il secondo va via in Francia, nel 1923 e critica Mussolini per come s’era servito del cadavere di Corridoni”. Certo. Però se de Ambris non era fascista, c’è da dire che si considerava un “legionario fiumano”. Poco prima della morte, sopraggiunta in Francia nel 1934, D’Annunzio s’era affannato a trattare con il Duce per un suo rientro in Italia.
    Adesso, è pur vero che due rondini non fanno primavera. Ma di sindacalisti rivoluzionari poi schieratisi nel fronte nazionalista e fascista penso alla fine riescano a costuire un bello stormo di rondini. Non è ‘fascismo naturale’. E’ una questione più complessa. (Basti vedere i testi degli interventi di Corridoni in cui cercava di suonare la sveglia ai ‘compagni’ italiani dicendo che in Germania - dove la sinistra era interventista - i sindacalisti, prima di definirsi socialisti, si definivano tedeschi).
    E con ciò, non dico che abbiamo sistemato la questione ideologica del libro, ma quantomeno l’abbiamo resa più complessa.
    Adesso passiamo alla questione di stile.
    Magrelli afferma che quello di Pennacchi è un bel libro, carico di pathos e di liricità. E poi muove una critica, anche pesante se vogliamo. Perché quando scrivi una storia tra esse maiuscole (Storia) ed esse minuscole (storia), rendere ridicola la prima rischia di essere davvero una penalizzazione senza pari al testo. Magrelli scrive, quindi, che è tutto bello - soprattutto quando Pennacchi parla dell’Agro Pontino - “benché il registro dialogico si faccia spesso troppo colloquiale (quando ad esempio si tratta di riportare le voci dei grandi personaggi storici)”. Chissà perché, appena finite di leggere le due righe, la risposta m’è subito venuta in mente. L’avevo letta nelle bozze, ma non sapevo se era stata confermata nel testo finale. Ho avuto la conferma che la parte non è stata modificata. Per cui la riporto dallo stesso Canale Mussolini.
    Pagina 43: “Mussolini ha strillato:«Peruzzi! Am dispiase propi ma stavolta n’an pòi vegner a manzàr da valtri, ch’agò d’andàr via. Ma nol mancarà ocasiòn, t’al sicuro». E perché ride adesso? Cosa dice? Lei dice che non può essere che Mussolini parlasse così, perché lui era romagnolo di Predappio, tutto un altro dialetto, un’altra inflessione? Lei la deve smettere con queste fesserie, io mica sto qui a raccontare barzellette. Cosa vuole che ne sappia io di quale dialetto e con quale inflessione parlasse Mussolini? Quelle sono però le cose che ha detto - la sostanza - e io gliele ridico parola per parola esattamente nello stesso dialetto in cui le hanno dette a me”.
    A questo punto, forse, all’obiezione di Magrelli, molto prima che il poeta la pensasse, ha risposto lo stesso autore. Profetico il passo: “Lei la deve smettere con queste fesserie, io mica sto qui a raccontare barzellette”.

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