Anonima scrittori


Narrazioni - Lorenzo Pavolini - Campo X

Categoria: Narrazioni
Postato da: zaphod

Racconto pubblicato sul numero 45 di Nuovi Argomenti, Mondadori. Sarà probabilmente uno dei capitoli del prossimo libro di Lorenzo Pavolini in uscita per Fandango. L’Anonima Scrittori - tra realtà e finzione - vi gioca un ruolo fondamentale.

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Capita persino di sbagliare cimitero, in una città come Milano, dove ci sono il Monumentale e il Maggiore. La prima volta, avevo mezz’ora a disposizione tra un lavoro di registrazione e un altro. Era con me una amica veneziana che cammina spedita. Ci dirigemmo verso il Monumentale, che sapevamo entrambi non essere distante, ma finimmo per rievocare lo splendore del San Michele: zanzare che impazzano tra le lapidi dei poeti, artisti più o meno celebri che riposano fianco a fianco, e tutte quelle altre cose impalpabili che marcano per sempre il visitatore, fino a strappargli la classica promessa, sul punto di abbandonare l’isola cimitero, proprio mentre dal vaporetto la osserva allontanarsi: un giorno tornerò, vedrai! I più megalomani aggiungono che sarà per sempre. Avevo spiegato ad Anna - questo il nome dell’amica veneziana con cui lavoro alla radio - che mio nonno era sepolto a Milano, in un’area speciale del cimitero dove stanno i repubblichini. La cosa non era certo in sé attraente, ma l’idea che non avessi mai visto la tomba di mio nonno la risolveva senz’altro ad accompagnarmi. E poi i cimiteri somigliano un po’ alla radio – ha aggiunto lei - circondati come sono da quel fascino irresistibile del binario morto. Per aggiungere spunti di interesse avevo spiegato ad Anna che accanto alla tomba di Alessandro Pavolini c’erano quelle della Ferida e di Valenti, almeno così avevo letto. Quindi eravamo giunti trafelati al piazzale, e superati fiorai e parcheggiatori avevamo cercato una mappa nei pressi dell’ingresso. Ricordavo: campo x del Musocco, però anche qualcosa che poteva essere “monumentale”. C’era un uomo che aveva la posizione del custode e il tempo stringeva. Raccolto il coraggio ho provato a chiedere, sottovoce ché solo lui mi sentisse dire: le tombe dei caduti della repubblica sociale, sapeva dove si trovavano? Non aveva battuto ciglio nell’informarmi che quello che cercavo era il cimitero Maggiore, non quello Monumentale. Con il 14 ci voleva un quarto d’ora, era alla fine di viale Certosa. Non potevo sbagliarmi: cimitero del Musocco, ovvero cimitero Maggiore, no Monumentale, capito! Lì avrei trovato il campo X. Aveva scandito a voce ben alta, con intenzione di farsi sentire. Io avevo girato intorno lo sguardo mentre sussurravo un ringraziamento, e vergognandomi davvero come un ladro mi ero scusato con Anna: mannaggia che idiota sono, era il Maggiore, è vero. E durante il tragitto che ci riportava agli studi di corso Sempione farfugliavo frasi sconnesse. Mi scocciava da morire essermi sbagliato. Mi scocciava da morire aver domandato informazioni. Mi scocciava sì anche che potessi essere stato scambiato per un nostalgico, e in fondo di aver coinvolto Anna in questo possibile fraintendimento.

La seconda volta sono arrivato in treno la sera e la mattina seguente il mio ospite milanese Filippo mi ha scaricato con il motorino alle 9,30 in piazzale del cimitero Maggiore. Ma era lunedì e il lunedì i cimiteri di Milano sono chiusi al pubblico. Si entra solo per i funerali. Mi è mancata la prontezza di spirito di inventare qualcosa e infilarmi nel pulmino dove stavano montando le uniche persone ammesse al seguito di un breve corteo di auto. L’autista controllava i nomi su una lista. Non me la sono sentita, così come non me la sono sentita di chiamare Filippo e approfittare di un passaggio di ritorno; anche in seguito ho sempre sostenuto con lui che la visita era andata benissimo, perfetta, un po’ di freddo, ma meglio così non c’era nessuno…

Ho aspettato una decina di minuti davanti alla guardiola dei custodi. Sono arrivate due signore con la pelliccia, indicavano una tomba vicina, insistevano che le facessero entrare, per cortesia. Ma i custodi si mostrarono inflessibili. Signora, poi dobbiamo far entrare tutti, rispondevano con un cenno del mento nella mia direzione. Allora mi sono allontanato di qualche metro. Due uomini che dovevano essere padre e figlio giunsero in quel momento e furono respinti anche loro alla barriera. Il padre aveva tolto il cappello. Sono venuto da Corsico, aveva provato a dire. Ma i cimiteri di Milano sono chiusi il lunedì. Ho seguito una giovane rom che spingeva un carrello della spesa carico di taniche d’acqua. Subito sulla destra dell’ingresso, lungo l’impenetrabile muro di cinta c’era una roulotte, i panni stesi e tutto il resto. In un punto l’agglomerato sembrava ergersi abbastanza da rendere possibile un tentativo di scavalcamento. Tra il muro e la roulotte c’era meno di un metro. Ho sorriso alla ragazza del carrello, le ho fatto segno con il dito sulle labbra di non dire niente e spingendo con la schiena e i piedi ho raggiunto il tetto. Bastava afferrarsi a quel ramo lassù, e forse ce l’avrei fatta… invece qualcosa nell’appoggio delle mie scarpe da ginnastica non ha funzionato e sono scivolato miseramente mancando la presa del ramo e ruzzolando di sotto. Per qualche istante ho perduto i sensi, a risvegliarmi è stato un getto d’acqua gelata che la ragazza versava direttamente dalla tanica sulla mia faccia. In tram c’era il riscaldamento, ma una volta in stazione ho verificato che il mio cellulare era stato seriamente danneggiato dalla doccia fuori programma, con conseguenze grottesche al momento di fornire il codice prenotazione tiketless al controllore della beneamata alta velocità red fast eccetera… e la minaccia di multa che ancora non so se arriverà o meno, come invece ha fatto il treno con soli dieci minuti di ritardo.

Forse è destino che io questo cimitero non lo veda e la tomba del nonno resti leggendaria.

Poi è capitata una coincidenza. Di quelle che dovevo subito parlarne con Uri. Una coincidenza per la quale accedevo al cimitero del Musocco. Dapprima un accesso mediato, frutto della rappresentazione altrui, poi da questa coincidenza era derivata una catena di eventi misteriosi per i quali passeggiavo ora tranquillo nel viale centrale del cimitero Maggiore di Milano e non solo, avevo accanto una tigre biondo cenere mansueta come un gattino e perlopiù indifferente alle persone che andavo incrociando. Lei indifferente a loro e viceversa.

Ma procediamo con ordine. Mesi addietro avevo accettato con slancio di vagliare i testi per un concorso letterario indirizzato agli utenti della rete e organizzato da un gruppo che si fa chiamare Anonima Scrittori, persone più o meno bastate su Latina e provincia. Nume tutelare del gruppo, faro e condottiero indiscusso è lo scrittore Antonio Pennacchi. “Resistenza”, il tema prescelto per l’edizione in questione del premio, circa centotrenta i racconti pervenuti entro la scadenza. Ne avevo scartati almeno quaranta quando la mia attenzione è stata calamitata dal seguente incipit: “Non è possibile, non è possibile, mi torco le mani per la rabbia, ma perché è capitata proprio a me, cosa ho mai fatto di male, ma questa volta il Cappellano mi deve dare una risposta soddisfacente, non può cavarsela con la solita, e cioè che ognuno porta la propria croce, e rammentati di Lui, che ha portato la sua in piazzale Loreto, dovresti saperlo ormai che l’importante è Credere, oltre che Obbedire e Combattere, è ovvio.

Massì, lo so, però è una vita che Combatto contro di lei, e la Vittoria appare ancora lontana. Ricordo per esempio la settimana scorsa, eravamo capitati dalle parti del Cimitero Maggiore ed io ho proposto andiamo a recitare una preghiera all’ultima dimora del povero Alessandro Pavolini. I miei amati ragazzi, fieri Giovani Avanguardisti, hanno aderito con entusiasmo, non mi aspettavo altrimenti, ma lei…mi mancano le parole per descrivere lo sdegno che mi ha pervaso nel sentirla sbuffare ecchepalle, ancora con ‘sto Pavolini!”

Nonostante fosse molto semplice, mi ci è voluto un po’ a capire lo schema del racconto intitolato Dritto e rovescio (l’autore in quella fase resta ignoto alla giuria). La materia mi impediva di procedere secondo ragione e scattavo avanti e indietro per quelle tre paginette che mi apparivano quantomeno ben scritte. Ci ho messo mezz’ora a capire che si trattava di un classico conflitto madre figlia. Nella prima parte (Dritto) a parlare era una donna che si disperava per essergli capitata in sorte lei una figlia “socialista”, e pensare che avrebbe voluto chiamare questa figlia ribelle e senza fede (fascista) Rachele o Benita, proseguiva il suo vaniloquio: “Ah Duce, Duce mio, per fortuna ti è stato risparmiato il dolore di conoscerla; mi sanguina ancora il cuore se penso all’ultima cerimonia in ricordo dei nostri Morti, al cimitero, naturalmente (ecchemortorio, sempre con ‘sto cimitero), iniziata come d’uso con una toccante Messa fra le lapidi officiata dal caro Cappellano (ecchedove l’avete pescato ‘sto prete, alla conquista di Addis Abeba?)” . Nella seconda parte (rovescio) era la figlia a prendere la parola ripercorrendo la stessa visita al cimitero in altra chiave: “Dopotutto lei lo sa benissimo quanto mi scassi ‘sta storia del cimitero, con i loro morti dell’epoca del cucù, poracci, mica dico di no, ma si esagera con ‘sta devozione funeraria, in più è in coppia con la sua amica Marisa, una tonta che si crede pure artista e piazza sempre sulle lastre assurdi mazzolini di fiori legati col nastro tricolore. Cosa? dovrei dare una mano? figurarsi, non mi passa neppure per l’anticamera del cervello.” E più avanti ecco l’affondo finale: “In più c’era una bandaccia di nazi, due facevano pure i chierichetti! mentre la pula fissava tutti con occhiacci così dai vialetti intorno. Alla fine del tutto, era ora, lei ha avuto il coraggio di dirmi i naziskin sono in fondo dei bravi ragazzi, hai visto come sono stati seri e compunti per tutto il tempo. Cosa?! Ho strillato fregandomene dei presenti, ecche sei fuori? i nazi bravi ragazzi, ma che dici?! e togliti quel basco nero dalla testa che fai ridere le tarme. Scherzavo, lo so che è il suo amato basco da Giovane Italiana, ma con lei non si può scherzare, come ti permetti, razza di senza patria!”…

Ero lì che riflettevo sul fatto che a me questo racconto sembrava il migliore fin qui letto, quando il telefono è squillato e Antonio Pennacchi mi ha detto che non era regolamentare inviare propri testi a un concorso di cui si è giurati. Veramente scorretto sei! Ripeteva con quel tono tutto suo, di chi ti manda volentieri a fa ‘n culo per scherzo ma anche per davvero. Per gusto del confronto libero diciamo, retoricamente franco: è no cazzo, intercala spesso, questo no cazzo! E il fatto stesso di dire cazzo accanto mettiamo a Proust, a lui che era stato operaio e non so quante altre cose prima e oltre che scrittore, dava una irragionevole soddisfazione, quasi un’ebbrezza.

Sapeva per certo che non ero stato io a scrivere quel racconto - e non solo perché a lui presidente di giuria erano già noti i nomi degli autori - e concordava con me che fosse uno dei migliori, forse da premiare, come difatti alla fine facemmo, in un pomeriggio invernale al teatro di Latina. La timidissima autrice esordiente Cecilia Bernardelli se ne stava in fondo alla sala e quando era stata invitata a venire a ritirare il secondo premio ex equo aveva mandato avanti qualcun altro.

Sapete come vanno questi premi, alla fine una bella pizza tutti insieme, giuria, assessori, premiati. Birra, vino, grappa. Più d’uno, sulla scorta del racconto in questione, mi interroga sull’impressione che avevo riportato leggendolo, e di lì il passo è breve per domandare se conoscevo la tomba di mio nonno. Provo a dire che al Musocco non sono mai stato, o meglio non sono mai entrato e… si parte: gpl, rock and roll e via, sulla strada come vecchi fricchettoni fasciocomunisti. Alle quattro svalichiamo l’appennino, con tipica apoteosi a Roncobilaccio. Alle 9 mi scaricano al Maggiore. Su su, vai avanti da solo!

Ecco com’è che passeggio ora in questo ampio viale che spacca in due il cimitero, e che se non fosse per certi tempietti circolari, che in due momenti ne interrompono la prospettiva, sembrerebbe infinito. La tigre grigia che mi saltella agile accanto? Penso sia frutto dell’insistito dormiveglia, o della puzza di gas. Sul sedile posteriore della Multipla beige lanciata nella notte ho rimuginato il vecchio proverbio indiano secondo cui chi cavalca la tigre non potrà più scendere, se vuole domarla. E alla fine eccola al mio fianco, la tigre, già piuttosto docile e domestica, e senza che ricordi d’esserle mai montato in groppa. Tigre di famiglia si sarebbe detta. L’impressione più forte che provavo passeggiandole accanto era un senso di separatezza, l’idea che in questa pianura padana di morti erano mescolate come nelle piazze dell’acropoli persone diverse, nemiche e amiche, ricche povere giovani vecchie, e il loro apparato tombale rispettava la varietà di statura, fortuna, cura parentale, impianto retorico sociale; ma già questa linea retta che è il viale centrale del Musocco ne metteva metà di qua e metà di là, E ulteriormente separati in un campo rettangolare a duecento metri dall’ingresso sulla destra, il campo x appunto, c’erano le 1432 croci di pietra grigia dei caduti militari e civili dell’Rsi. Una specie di cimitero dentro un altro. Circondato da una compatta siepe di alloro. Improvvisamente omogeneo, con le croci tutte uguali, ordinate nel loro susseguirsi regolare. Croci piatte e basse. Riportavano solo la data di morte. Questo davvero aumentava la divisione dal mondo dei morti di fuori. Cognome, nome, data di morte, un numero, e solo alcuni una piccola foto. Ed erano morti più o meno tutti quanti in un determinato giro di giorni della primavera ‘45. Avevano certo intrattenuto, in alcune fasi della loro esistenza, rapporti anche stretti con altri morti là fuori, affari, amicizia, sesso, chissà cosa altro. E anche con molti dei morti negli stessi giorni. Ma stavano al di là della siepe, annunciati da una croce più alta che l’Unione Nazionale Combattenti della Repubblica Sociale Italiana dedicava ai suoi caduti, vicino a una fontana per l’acqua dei fiori. Intorno alla base, ceri rossi, crisantemi, una pianta di ciclamini bianchi. Un campo curato di prato e vialetti stretti di ghiaia, quattro pini marittimi un po’ incongrui al centro, le croci spalle a spalle, le medaglie d’oro al valore militare (abbreviato v m), tipo Barracu e Borsani hanno un nastrino tricolore che le cinge in alto, ma anche altri come Bombacci o giovani ragazzi sconosciuti recano la stessa attenzione. Le croci più vuote sono quelle degli ignoti. Infine trovo Pavolini Alessandro. Numero 1330. Una foto ovale in cui indossa il berretto con la visiera, è di profilo e ha la barba ispida. La data è quella maggiormente condivisa nel campo x, il 28 aprile 1945. In equilibrio sul colmo della croce due garofani: uno rosa e uno bianco.

La tigre si accoccola sull’erba con l’eleganza tipica della sua specie, il muso posato sulle zampe anteriori incrociate. E giurerei che fa le fusa. Dell’Anonima Scrittori nessuna traccia nei paraggi. Allora accarezzo l’animale e le racconto la storia di quella parte della mia famiglia che giace sotto questa lapide numero 1330.

2 Responses to “Narrazioni - Lorenzo Pavolini - Campo X”

  1. zaphod Says:

    Non so se nel marasma dei cambiamenti dovuti al nuovo sito questo racconto di Pavolini sia passato un po’ in secondo piano.
    E’ un bel racconto, quando l’ho letto per un po’ ho faticato a distinguere la realtà dalla finzione.
    E’ stato molto gratificante. E’una delle missioni dell’Anonima: aiutare le storie a venir fuori.

  2. Tre Fratelli Magri - Lorenzo Pavolini Says:

    [...] nostro concorso (r)esistenza - manuale di storie contemporanee. Esperienza che ha poi raccontato in un capitolo del suo libro precedente Accanto alla tigre, (Fandango, 2010, finalista al premio Strega), che pubblicammo in [...]

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