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Canale Mussolini, brano in anteprima

Categoria: Canale Mussolini, Narrazioni, Pennacchi
Postato da: Torquemada

[Dopo l'intervista, sul Forum di Anonima Scrittori, si sono scatenate le domande ad Antonio Pennacchi. Qualcuno ha chiesto - è stato MrDarcy - se nel prossimo libro c'erano anche scene di sesso. Ecco la risposta dello scrittore: «Una piccola anticipazione, tratta dal primo capitolo di "Canale Mussolini" con alcune scene di sesso - peraltro molto soft - richieste da Darcy. Spero si accontenti. Per l'hard, deve aspettare la Colonia». La riportiamo anche sull'home page, per tutti i nostri visitatori]

CANALE MUSSOLINI - CAPITOLO I (breve estratto)

Fatto sta che dopo sposato, mio nonno s’è messo a fare il contadino. Avrà avuto ventidue anni. Prima è stato lì con loro – coi fratelli della moglie – anche per impratichirsi diciamo così, pure se impratichirsi da contadino non è così facile come a dirlo, ci devi nascere sulla terra e se non ci sei nato resti sempre poco pratico, non saprai mai qual è il momento giusto di piantare o raccogliere le cose, devi guardare gli altri, e anche nei movimenti resti sempre un po’ impacciato; e forse è per questo che lui si è sempre affidato a lei. Dopo due o tre anni hanno deciso di andare via e mettersi da soli. Lei stava sempre a sentire i fratelli, però a stare voleva stare da sola, per conto suo, con la sua famiglia. A farla breve, hanno preso dei campi in affitto a Codigoro e avevano qualche vacchetta datagli dai fratelli e andavano anche a giornata fuori, come braccianti, e ogni tanto, quando capitava, mio nonno si faceva pure un viaggio col carretto, tanto in campagna governava mia nonna. Poi, un anno appresso all’altro, i figli arrivavano e crescevano, e già diventavano anche loro forza lavoro e si prendeva in affitto altra terra.
Comunque quella volta – nel 1904 – mio nonno si trovava a passare per caso per Copparo durante uno di questi viaggetti. Stava sul carretto e trasportava una partita di vino con tutte le botticelle legate l’una sopra l’altra. A un certo punto ha visto confusione. C’era una manifestazione di operai: operai a giornata delle bonifiche ferraresi, terrazzieri, braccianti, scarriolanti. E lui ha visto su un palchetto l’Edmondo Rossoni che strillava gesticolando.
«Fammi stare a sentire il Rossoni» s’è detto mio nonno, perché lui lo conosceva quel ragazzotto alto e segaligno, un pennellone che sulla piazza di Copparo adesso pareva un matto. Era uno di Formignana, anzi proprio di Tresigallo, quella piccola frazione tre case e una chiesetta dove stavano anche i cognati di mio nonno. Il padre faceva lo spondino – quei terrazzieri che scavavano i canali a mano – tirava su le sponde. La madre era di Comacchio e andava a giornata fuori, bracciante, a mondare il riso e a zappare l’erba via dal grano. Mio nonno lo aveva visto ragazzino, essendoci un otto o nove anni di differenza. Il Rossoni adesso ne aveva una ventina e mio nonno quasi trenta, perché era del ’75 – 1875 – e a trent’anni aveva già una barca di figli: Temistocle appunto, nato subito nel ’97, poi una femmina nel ’98, ’99 zio Pericle, 100 l’hanno saltato, ’1 zio Iseo, ’2 una femmina, ’3 un’altra femmina e ’4, come detto, zio Adelchi.
Comunque il nonno ha visto il Rossoni con la giacchetta, la camicia e il fiocchetto da studente e s’è messo ad ascoltarlo dietro a tutti gli operai. Pare che qualche giorno prima – in un posto chiamato Buggerru, in Sardegna – i soldati avessero sparato sui minatori in sciopero e ne avessero ammazzati tre. O almeno così diceva il Rossoni. Ma come non bastasse, qualche giorno dopo i carabinieri a Castelluzzo in Sicilia avevano sparato su una lega di contadini ammazzandone due e ferendone dieci. «Eh no» conveniva mio nonno, «queste cose non si fanno. E che, non ho neanche il diritto di protestare?» No, non ce lo avevi. Ora sia chiaro che non è che mio nonno cadesse dal pero. Lui pure sapeva com’è che va il mondo. Faceva il carrettiere e non è che avesse un’idea politica vera e propria, lui sapeva che esistono e sono sempre esistiti i ricchi e i poveri e non c’è niente da fare, è inutile che ti fai venire idee strane, è meglio che ti rassegni e basta. Ma quando però uno si trova con l’acqua alla gola e non ce la fa a tirare avanti la famiglia e ti chiede a te che stai pieno di roba di farlo lavorare o di pagarlo una lira in più, tu non gli puoi far sparare addosso dai carabinieri o dai soldati: «E che madonna» diceva fra di sé mio nonno.
Ma proprio in quel momento sono arrivati i soldati. A Copparo. In piazza. Con le guardie regie e il commissario di pubblica sicurezza. Mentre parlava il Rossoni. E lo volevano far tacere: «Questa è una manifestazione non autorizzata, lei è in arresto, scioglietevi». Allora sono cominciate le botte e i parapiglia. Mio nonno è rimasto di fianco ai portici – imbambolato – a guardare da sopra il carretto. Dietro agli operai.
Una confusione che non le dico. Il polverone – mica c’era l’asfalto – urla, strida, e poi colpi di moschetto e la gente che scappava di qua e di là e proprio mentre mio nonno oramai stava alzando il frustino per dire in fretta al cavallo «Vai, vai, squagliamocela anche noi», gli è piombato sul carretto, sbucando come Mosè da una nuvola di polvere ma con un nugolo di guardie che gli correvano scalmanando appresso, gli è sbucato e piombato, tònf, sopra il carro il Rossoni, anche lui strillando: «Scàmpame Peruzzi, scàmpame».
Che poteva fare mio nonno? Il Rossoni lo conosceva da quand’era ragazzino. Lo lasciava lì? Non s’è manco posto il pensiero mio nonno, è stato un riflesso automatico. Ha alzato il frustino e «Vai!», ha urlato al cavallo. Ma non ha fatto in tempo a dirgli «Vai» che le guardie gli sono state addosso. Chi tentava di fermare il cavallo prendendolo per il morso e chi menava di piatto con gli sciaboloni addosso al carro, al cavallo e al Rossoni.
Io adesso non lo so se sono state più le botte al Rossoni o quelle al cavallo. Ma fatto sta che a mio nonno gli è saltata la mosca al naso e ha cominciato a tirare frustate con la frusta lunga a destra e a manca: guardie, borghesi, passanti, tutto quello a cui arrivava. «Fiòi de càn» strillava: «Fiòi de càn!», fuori di sé.
Il cavallo non lo aveva mai visto così – glielo ho detto che era un uomo tranquillo, un pezzo di pane, dove lo mettevi stava per tutta la vita; ma chissà cosa dev’essergli preso quel giorno, la furia, forse, che da qualche parte a noi deve pure arrivare, in fin dei conti – e comunque il cavallo non lo aveva mai visto così e ha preso paura. Mica per le guardie e le bastonate sul groppone, quello s’è preso paura per il padrone e s’è imbizzarrito, ha cominciato a sgroppare come un puledro, saltava come ai rodei, s’incurvava, e il carretto saltava appresso a lui, con mio nonno e il Rossoni che si reggevano alle sponde e con mio nonno che strillava ancora «Fiòi de càn» e le funi che si rompevano e tutte le botticelle che cadevano per la strada e si sfasciavano, e il vino che andava perso, e mio nonno che pensava: «Che casso ghe digo inquò?» alla moglie, per tutti i danni del vino e delle botti che ci sarebbero stati da pagare.
Per farla breve sono caduti per terra e s’è rotto anche il carretto, e poi il cavallo s’è fermato e le guardie li hanno presi e sbattuti in prigione, dopo avergli però dato un sacco di botte, soprattutto a mio nonno più che al Rossoni. Sia perché mio nonno era contadino vestito da contadino e quell’altro invece – per quanto sovversivo e rivoluzionario – era sempre vestito da persona per bene, col fiocchetto pure. Sia però per via delle frustate, perché diciamo la verità, il Rossoni le aveva solo prese ma mio nonno le aveva anche date. Poi gliele hanno restituite tutte – e un po’ anche al Rossoni – e li hanno messi in prigione. Processo e un mese di carcere.
Adesso non so se il mese lo hanno scontato a Copparo o li hanno portati alle carceri di Ferrara, però so che stavano in cella assieme, una cella grande, un camerone, e per un mese hanno diviso sia il rancio schifoso che il bugliolo. Non sa cos’è il bugliolo? Era un vaso di coccio messo in un angolo, in cui ognuno andava a fare i propri bisogni. Spartivano il pane e i bisogni in pratica, e mio nonno, che non aveva mai avuto un’idea politica in vita sua – sì, i preti non gli piacevano, ma la politica era roba da signori per lui – mio nonno in quel mese, a stare a sentire il Rossoni dalla mattina alla sera, era diventato una specie di Carlo Marx pure lui, anche se ogni tanto, specie poco prima di dormire, quando ognuno stava rannicchiato nel suo cantuccio per tentare di acchiappare al volo il sonno, ogni tanto mio nonno diceva forte, da sotto la sua coperta: «Scàmpame, Peruzzi, scàmpame!» e tutta la camerata si metteva a ridere, Rossoni compreso. Poi, dopo che s’era placata l’ultima risata dal fondo della cella, mio nonno aggiungeva disperato: «Còssa ghe dìgo mo’ a mè mojère?». Gli altri ri-ridevano ancora, ma quello era il pensiero suo fisso, e man mano che passavano i giorni e finiva la pena da scontare e arrivava il momento di uscire, a mio nonno aumentava la pena di uscire: «Trenta giorni? Trent’anni dovevano darmi».
Liberi comunque, rilasciati. E salutato il Rossoni al bivio di Tresigallo, mio nonno s’è avviato verso casa a Codigoro – una quindicina di chilometri a piedi – sempre con la voglia di rallentare o addirittura voltare e tornare indietro. Ma buono pure come il pane, non era però un uomo da sottrarsi al suo destino; quel che è fatto è fatto e così, lasciata la strada grande, ha preso la poderale verso casa. Lei l’ha visto da lontano – era pomeriggio inoltrato – che appariva e spariva tra l’ombra scura dei fogliami e gli sprazzi luminosi del sole che, oramai, si faceva strada a fasi alterne tra gli olmi del filare. E gli è andata incontro.
Lui l’ha indovinata – percepiva solo la figura, col sole alle sue spalle; senza i lineamenti – e ha aumentato il passo: «Sia quel che sia». Ma quando a venti metri l’ha vista in viso che non era arrabbiata, che non ci sarebbe stata guerra per le botti il vino ed il carretto, che lei era solo felice di vederlo – felice e basta, e le ridevano gli occhi oltre che le labbra – allora mio nonno è corso per abbracciarla. Però appena l’ha toccata – solo le mani tese in avanti, prima ancora di abbracciarla – mio nonno s’è messo a piangere, che lei non lo aveva mai visto e neanche lui, a ricordarselo, s’era mai messo a piangere prima in vita sua. E mia nonna gli diceva: «Pagarém Peruzzi, pagarém» per consolarlo, perché pensava che lui piangesse per il dispiacere, per i pensieri, i debiti, il danno. E invece lui piangeva di contentezza: «Come te sì bèa» le diceva, «come te sì bèa». Mio nonno piangeva perché la moglie era bella. Tutto qua. Sì, certo, s’era pure sentito sollevato, placato oramai d’ogni ansia e disavventura; ma lui piangeva perché quella era bella, e non solo era bella, gli voleva anche bene. Lei non piange per queste cose qui?
È stato solo dopo – a sera, a letto, dopo essersi placati d’amore e d’astinenza – che a lei è venuta voglia di qualche spiegazione in più. Prima aveva messo a letto i figli nell’altra stanza e s’era tenuta solo l’ultimo nato, l’Adelchi, nella culla a fianco al letto loro. S’era lavata col sapone profumato che teneva da una parte nel cassetto del comò, aveva dato la poppa all’Adelchi, ingozzandolo quasi: «Mangia fiòlo, mangia» che oramai gli usciva a rivoli il latte dalla bocca, finché non s’è addormentato come un sasso, sulla tetta. «Ora dorme fino a domani» aveva detto allora mia nonna e l’aveva messo nella culla, e subito alle tette ci si era messo il nonno, fino a stancarsi tutti e due dopo tutta quell’assenza, e solo dopo la nonna gli ha finalmente chiesto, ridendo quasi sotto i baffi, a canzonarlo: «Ma cos’è che t’ha preso Peruzzi, còssa te gà tòlto?». E rideva di gusto, tanto che s’è dovuta voltare pei sussulti del riso, perché erano coricati di fianco, uno dietro l’altra, e s’è voltata verso di lui, poggiata col gomito sul cuscino a chiedergli: «Ma còssa te gà tolto? Spiégheme, Peruzzi» e rideva, perché non ci aveva voluto credere quando la gente era venuta a dirle di lui che strillava sopra al carro «Fiòi de càn» e menava frustate alle guardie. E adesso stava lì a ridere, appoggiata al cuscino a immaginarsi la scena: «Còssa te gà tòlto?», con lui invece che guardava in alto al lume di candela verso una macchia del soffitto – una macchia d’umidità – con le mani giunte sotto la testa e i gomiti larghi; assorto, serio, a chiedersi anche lui cosa gli fosse preso quel giorno.
«Non lo so neanch’io» le ha detto prima. Ma dopo un po’ ci ha ripensato – mentre lei ancora rideva e già ricominciava fintaindifferente a stuzzicargli con l’altra mano il cagnolino addormentato – e le ha detto voltandosi anche lui, e ricominciando a baciarla: «El cavàl, fémena, el cavàl no ghéa da tocarmelo!». E la nonna gli ha sentito nella voce un suono duro e sordo – la minaccia – che unito ai baci le rabbrividì la schiena.

4 Responses to “Canale Mussolini, brano in anteprima”

  1. Canale Mussolini di Antonio Pennacchi by Mondadori | Poetilandia Libri Says:

    [...] secolo di storia italiana. Anticipato con un breve estratto del primo capitolo sul sito dell’Anonima Scrittori, con ‘Canale Mussolini’ l’autore rievoca il passato controverso e insieme epico [...]

  2. Premio strega a Antonio Pennacchi | Pupi di Zuccaro Says:

    [...] aggiudicata la 64^ edizione del premio Strega “Canale Mussolini” di Antonio Pennacchi, seconda classificata Alice Avallone con il suo [...]

  3. Il premio Strega ad Antonio Pennacchi Says:

    [...] Il brano di Canale Mussolini pubblicato in anteprima da Anonima Scrittori. [...]

  4. L’Anonima va in ferie Says:

    [...] Canale Mussolini (brano in anteprima) [...]

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