Beograd 1994 – Patrizia Birtolo
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Postato da: zaphod
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- Foto terapia # 4 - i racconti
- Luca gioca da solo - Snaporaz
- Scacchisticamente parlando - Daniela Rindi
- La sfida - Edoardo Micati
- La differenza - Stefano Cardinali
- Finale di partita - Marcellino Iovino
- Uno strano uomo - Donatella Franceschi
- Scacchi matti – Bruno Di Marco
- Il tempo per giocare - Federica De Angelis
- Saggezza - Maria Chiara Biondi
- L’ultima sfida – Annamaria Trevale
- Un sogno terapeutico – Gobig Onego
- Beograd 1994 – Patrizia Birtolo
- Tempo di battaglia – Dr Frank Ripper
- Il gardè – Giada Giordano
- Belgrado – Marcello De Santis
“Quando dai a qualcuno tutto il tuo cuore e lui non lo vuole, non puoi riprenderlo indietro.
Se ne è andato per sempre.” (S. Plath)
Brutta situazione. Drago aveva cominciato a spingere e spingere, ed eccolo compresso tutto nelle prime traverse. C’era solo una torre bianca, là, in sesta linea, avamposto solitario lungo un corridoio deserto.
I pezzi neri erano penetrati nel suo schieramento come macchie di un’infezione, una cancrena che voleva portarlo alla tomba. Diversamente da quanto avviene al corpo umano in cui val la pena sacrificare un pezzo per il tutto, in partita perdere un pezzo ti porta a fondo. L’avversario ti forzerà a scambi serrati e ti trascinerà verso un finale umiliante.
Ma mio padre aveva già perso tutto ciò che per lui contava. Io anche.
Degli scacchi non mi era mai importato granché, poi avevo incontrato lei. Erano l’unica cosa che avevamo scoperto avere in comune.
Mio padre, giocatore accanito, aveva preteso che noi figli imparassimo tutti e tre. Ora non sapevo se ringraziarlo o maledirlo per avermi insegnato quel gioco.
Al fronte ero stato ferito, la mia parte nella JNA l’avevo fatta, adesso ero in licenza. Passavo il tempo alla radio. Era lì che l’avevo incontrata la prima volta. La nostra era una piccola radio libera gestita da un’associazione con contatti presso organizzazioni umanitarie all’estero. Come Radio Zid, dove lavoravano alcuni ragazzi serbi di Sarajevo, un ragazzo croato trasferitosi da Grbavica più in centro e naturalmente tanti giovani bosniaci musulmani. Ma noi qui a Belgrado eravamo tutti serbi, degli altri non c’era più in giro neanche l’ombra.
Lei era arrivata un giorno, accompagnata da alcune amiche delle Donne in Nero. Doveva fare un’intervista. Le serviva materiale per gli articoli, altrimenti il pass giornalistico (fasullo) che i volontari cercavano disperatamente di rimediare per entrare a Sarajevo non gliel’avrebbe rinnovato nessuno. Non parlava la mia lingua. Non parlava inglese. Solo un po’ di francese. In pratica mi stava chiedendo di aiutarla a ritornare. Dai nemici.
La guerra mette a nudo molte cose.
Io quel candore disarmante e un po’ infantile ero impreparato ad affrontarlo. Se mi fossi trovato davanti una vera giornalista infarcita di luoghi comuni sul conflitto me la sarei mangiata viva. Ma lei era solo una staffetta, e l’articolo un pretesto. L’intervista si fece. Sarebbe finita lì, se non l’avessi incontrata ancora quella sera. Miloš mi aveva trascinato alla Dom Omladine, ed eccola un’altra volta. Non ci eravamo più lasciati, poi. I giorni erano passati in fretta, il tempo non mi era mai sembrato correre così veloce.
Prima che lei ripartisse, eravamo tornati alla radio e ci eravamo chiusi dentro. Tutta la notte così, abbracciati, ascoltando i dischi preferiti, i mozziconi delle sigarette accese che brillavano nel buio.
Sapevo che non l’avrei mai più rivista, il cuore mi doleva per il tormento di quella situazione. Non potevo chiederle di restare, non potevo seguirla. Non avevo il coraggio di dirle di aspettarmi. Non si poteva fare niente.
La mattina arrivò. Lei se ne andò. Il mondo si fermò per quell’istante. La nostra partita si interruppe e da allora con nessuno l’ho ripresa. Non gioco più, mi limito a guardare mio padre e gli altri vecchi alla Terazije assorti e silenziosi intorno a una scacchiera disegnata a tavolino.