Il tavolo è lungo.
Rivestito di una lastra di vetro. Perfetto.
La stanza ha un aspetto trasandato, libri appoggiati qua e là, una pianta semisecca sulla mensola di faggio, niente tende, un tappeto arrotolato nell’angolo dietro l’attaccapanni. Ovunque abiti smessi: sul paralume, accanto al televisore, sul termosifone, in bella vista sui braccioli di una poltrona.
E posacenere ricolmi. L’odore acre delle cicche impregna ogni cosa.
Più avanti sporgendosi verso l’angolo cottura si intravede una pila di piatti e bicchieri sporchi, a sedimentare. Tutto trasuda indifferenza, crudeltà.
Crudeltà è in realtà un termine forte, ma esprime pienamente il senso di sfida implicito a tutta quella inerzia, sfida verso la semplice decenza, necessità impellente di dilatare ogni cosa fino al limite, solo per la curiosità di vedere cosa succede e soprattutto se esiste, in fondo, un limite a tale tracotanza.
Certo la casa “va vissuta”, ma qui, come appare chiaro da subito, più che altro si dorme di giorno, e si fuma, si parla, si gioca, si piange e qualche volta si ama, di notte.
Marco ha acceso lo stereo appena siamo entrati, io mi siedo sul divano, bianco, scelta non particolarmente felice visto che a causa del fumo il colore sta lentamente scemando verso il beige.
Il trillo ...