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Storia per avvocature - Renzo Brollo

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Postato da: zaphod

Sono le cinque e mezza del pomeriggio e l’avvocato Bucelli s’allunga sulle stringhe delle sue belle scarpe Prada, masticando gomma americana alla cannella. A proposito, si dice americana, ma la fanno a Lainate. Si stiracchia per avvicinarsi di più alla mia faccia e soffiarmi addosso il suo alito fresco, macinato rognoni e Xilitolo plastificato gomma arabica. Pretende, senza darmi false speranze orarie, che gli rifaccia tutta la cronistoria della vicenda Papelli entro un’ora soltanto.

“E badi bene” dice “mica la voglio a voce, su slide belle colorate deve presentarmela”, e se ne va grondante sudore pastorizzato Mennen. Ora, il caso Papelli è quanto di più complicato e lungo ci sia in archivio e questa razza bastarda d’avvocato viene a chiedermela entro sessanta minuti, proprio stasera che il mio Lino mi porta fuori e poi mi fidanza ufficialmente, sempre che non si rimangi la parola. Non ce la farei neanche frantumando il record di Ramona, che in due ore e dieci riprese il contenzioso Marossi dall’inizio, da quando cioè il Marossi stesso entrò dalla porta chiedendo la nostra assistenza, fino alla sua trionfale uscita dieci anni dopo, con sottobraccio copia della pratica con su stampigliata un’assoluzione perché il caso non sussisteva. Qui si tratta di replicare la cosa, con l’aggravante delle slide, che all’epoca della pratica Marossi erano fantascienza.

Comincio col chiamare Lino, tanto per avvertirlo della rogna, e lui cosa fa? Benedice la conversazione con un rosario di bestemmie che spero di dimenticare presto. Oltre il danno, pure la beffa, come se fosse colpa mia. Riaggancio e parto col lavoro, ma la storia è lunga, perciò mi arrendo dopo le prime due slide. Fuori da qui è molto più buio di ieri, le giornate si accorciano e bisognerà che me ne faccia una ragione. Bucelli passa ogni cinque minuti, preciso come il suo Festina ben in vista sopra il polsino. Mio nonno faceva uguale, solo che a lui non fregava che tutti vedessero l’orologio, gli bastava non irritare la pelle. Butta certe occhiate alla mia scrivania che dicono tutto, convinto com’è sempre stato che la sua abilità stia nella capacità di arrogarsi qualsiasi diritto su di me.

Alle sei precise prendo l’irrevocabile decisione che la mia vita privata è sacrosanta, come sacrosanto è il dovere di Lino di condire il mio dito con l’anello che da mesi aspettava in vetrina. Dopotutto ha fatto una promessa e le promesse, come i figli, si devono mantenere almeno per diciotto anni. Prendo l’ascensore e salgo al primo piano cercando, tra le solite, la scusa adatta per non finire il lavoro entro oggi. Mi preparo mentalmente alla lavata di testa, consapevole che le gerarchie sono fatte apposta per difendere i primati dei più potenti, perciò non posso che aspettarmi una cascata di insulti da prendere e portare a casa. Ma poco importa se poi stasera il mio onore sarà preservato dall’oggettiva dichiarazione amorosa del mio caro Lino. Al piano, sulla destra il bagno privato dell’avvocato, sulla sinistra il suo ufficio con la porta socchiusa. Ci entro decisa, bussando e spalancando la porta senza aspettare, ma lo trovo vuoto. Per curiosità mi avvicino al bagno, dall’interno rumori di corpo agitato. Riprendo l’ascensore e salgo al secondo piano. Sulla destra il bagno personale della Ramona, sulla sinistra il suo ufficio con la porta spalancata e senza nessuno all’interno.

“Orpo…” penso voltando i tacchi.

“Sicché…” mi dico, scendendo al primo piano.

Mi piazzo fuori dal bagno, le braccia conserti e la gamba incrociata, con la punta dello stivale ben conficcata nella moquette.

“L’avvocato e Ramona quindi…”, soppeso la faccenda, leccandomi le labbra quasi senza più rossetto.

“Ma dai…” concludo da sola, mentre la porta si spalanca e l’avvocato esce trionfante, un sorriso planetario e la patta aperta sul mondo. Ramona s’inciampa sul tappetino prima di farsi vedere, i capelli arruffati, la camicia stropicciata a coprire i suoi gioielli incastonati di silicone. Il gioco scorretto del rimpinguare la dispensa con cibo fasullo è sempre stato contro i miei principi, perciò le sue poppe adulterate mi irritano peggio che l’ortica sulle gambe.

“Avvocato Bucelli…Ramona!” esclamo, allargando le braccia enfatica.

I due fedifraghi, colti in flagranza di reato, cercano come possono di rimettere in sesto i vestiti sconquassati dall’amplesso, ma quella certa aria di vittoria dalla faccia dell’avvocato non gliela leva nessuno. Ramona, invece, prova tutt’al più a sorridere per schermare l’imbarazzo, ma nel piccolo bagno cieco ristagna ancora l’odore dei due corpi bruciacchiati dalle vampe amorose.

“Signorina, venga nel mio ufficio” dice l’avvocato. Lo seguo, tirando l’ultima frecciatina a Ramona, una strizzatina d’occhio luccicante e un passaggio di lingua sul labbro superiore, quanto basta per farle portare la mano alla bocca e sparire dentro l’ascensore.

“Signorina” dice sedendosi pesantemente sull’ampia sedia “se lei crede di poter…”

“Avvocato!” lo interrompo “il ricatto è l’ultimo dei miei pensieri! Per l’amor del cielo, per chi mi ha preso!”.

Bucelli, avvocato ma anche altro, stira il collo e inclina la testa, mostrando sorpresa. Accavalla le gambe, tamburella con la penna sul tavolo, facendola scivolare tra le dita fino in fondo e ricominciando d’accapo con l’altro lato.

“Oh…in questo caso…beh, presumo che dovrei ringraziarla” dice sottovoce.

“Neanche questo m’aspetto, avvocato. C’è una cosa sola…”

“Ah! Lo sapevo!” Si rizza in piedi, batte i palmi sul tavolo, la penna schizza via per l’effetto leva imprevisto. “Mi vuole ricattare eh? Altroché balle! Forza, mi dica quanto vuole! Avanti e facciamola finita!”.

“La smetta, avvocato. Le ho detto che non voglio ricattarla”.

“Allora cosa vuole?”

“Il riepilogo del caso Papelli…”

“Papelli? Che c’entra Papelli, adesso”.

“Non ho tempo di farlo stasera. Glielo consegno per domani. Oggi devo uscire alle sei e mezza”.

“Tutto qui?”

“Tutto qui”.

L’avvocato Bucelli si rigetta sulla sedia, le mani in comunione e gli indici fissati alle labbra.

 

Quando, alle sei e mezza, esco dal suo ufficio e poi dallo studio ho ottenuto più di quel che volevo. Libera di tornare a casa e farmi bella per il caro Lino, struscio i polpastrelli sull’assegno da duemila euro che l’avvoltoio malfidente mi ha passato per comprare il mio silenzio, non sospettando che la brava Ramona sta già confessando il suo infuocato peccatuccio corporale alla cara amica del cuore, innescando così la vecchia e micidiale storia della catena di Sant’Antonio. L’amore paga, il silenzio paga, l’avvocato paga e pagherà.

Per quanto mi riguarda, tutto ciò fa parte solamente di un’ordinaria giornata di lavoro, nuda e cruda, spinta e senz’altro senso che questo. Posso rinunciare al soldo, alla stima di Bucelli, posso rinunciare a tutto, ma non al mio Lino, che, i capelli schiacciati da una cascata di gel, mi sta già aspettando al tavolo del ristorante, pronto per inforcare il primo boccone, pronto per suggellare qualche cosa di veramente sacro.

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