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Il bottone rosso - Stefano Carbini

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Postato da: zaphod

La lama di luce che penetrava tra i cartoni disegnandogli il viso alla fine l’ebbe vinta e l’uomo socchiuse lentamente le palpebre sugli occhi arrossati. Sulle prime cercò di sprofondare di nuovo nel sonno, si girò, si tirò addosso gli stracci che lo coprivano, si rifugiò sotto i cartoni, ma il freddo pungente lo costrinse a tirarsi su. La specie di sgabuzzino in cui si era rifugiato la notte prima era quasi completamente occupato da lui e dalle sue cose, stipate in sacchetti di plastica dentro un carrello del supermercato tutto sbilenco.

Si alzò, sempre stringendo addosso quella specie di coperta, e dopo poco si decise a uscire dallo stanzino: aveva bisogno di pisciare e doveva trovare dell’acqua.

Quando lavorava, in ufficio, dopo pranzo prendeva sempre la sacchetta con spazzolino e dentifricio e andava in bagno a lavarsi i denti. Ora, gli era rimasta come una specie di mania: ogni volta che trovava una fontanella tirava fuori lo spazzolino con le setole di plastica consunte e piegate e se lo passava, ormai senza più nessun criterio, sui denti, quelli che restavano. E appena sveglio doveva fare lo stesso.

Percorse cauto il corridoio immerso nella penombra, svuotò la vescica in un angolo, poi intravide in fondo la luce che entrava da una porta socchiusa. Quando la raggiunse la trovò incastrata nel pavimento. Spinse. Nel varco un po’ più largo intravide un lavandino attaccato al muro, spinse ancora e la porta cedette. La luce abbacinante del basso sole invernale lo investì, ma l’uomo strinse solo un po’ le palpebre e andò dritto al lavandino con lo spazzolino stretto nella mano.

Quando ebbe finito con i denti, sciacquò il viso, la barba, si asciugò con l’interno del braccio e poi si girò.

L’ambiente immenso del capannone semivuoto, con la luce che scendeva dai finestroni sotto il tetto, gli sembrò una cattedrale, e con lo stesso timore reverenziale che aveva sempre provato entrando in una chiesa deserta, si incamminò lentamente.

L’uomo procedeva verso la parte opposta della costruzione combattuto tra il bisogno di tornare a recuperare le sue cose e la speranza di trovare, laggiù in fondo, qualcosa abbandonato da portar via. Man mano che si avvicinava cercava di capire cosa ci fosse là nell’angolo; intravedeva la forma, ma i suoi occhi miopi, anche strizzandoli, gli restituivano solo contorni sfocati. La parola “calcinculo” prese a galleggiargli nella mente, ma lui quel suono non riusciva ad associarlo a nulla.

Poi, a qualche decina di metri dalle strutture sistemate lungo le pareti, si bloccò.

Come se le nuvole nere di un temporale avessero d’un tratto coperto il sole, nel capannone era scesa l’oscurità. Eppure non si sentiva odore di pioggia, piuttosto quello che percepiva era odore di primavera, e anche l’aria gli sembrava più tiepida.

Un brivido gli percorse la schiena, i peli si drizzarono.

Dalla sua piccola mano abbandonata lungo il fianco sentì salire il calore della stretta forte e rassicurante di quella di suo padre. Nel buio della sera le luci colorate illuminavano in modo irreale la folla che si muoveva negli spazi allestiti per la festa del paese, le attrazioni, i banchetti, e il rumore e la musica in certi momenti diventavano assordanti. Dalle cucine all’aperto giungevano fumo e odore di carne sulla brace.

Fermo accanto a suo padre guardava, il naso all’insù, la giostra girare vorticosamente, le figure sui seggiolini attaccati alle catene rincorrersi, agganciarsi e poi di nuovo allontanarsi, lanciati nel vuoto come schegge. Lui era troppo piccolo, ma suo fratello e suo cugino erano là sopra a cercare di conquistare il trofeo per far colpo sulle ragazze.

- Robertino. Robertino, vieni! - il bambino si voltò, l’uomo girò il capo, guardarono la donna alla cassa della giostra che chiamava con la mano. Volsero il capo verso l’alto a chiedere con gli occhi “posso?”, e come risposta ricevettero il sorriso del padre e la stretta alla mano che si allentava. Il bambino corse verso la cabina della cassa; l’uomo lo vide entrare, salire sulle gambe grandi e soffici della donna, guardare affascinato le luci colorate del pannello di controllo. Fra poco l’avrebbe premuto lui il bottone rosso che avrebbe fatto fermare la giostra.

L’uomo tornò a guardare in alto suo fratello che girava attaccato al seggiolino del cugino, pronto a lanciarlo ancora una volta, l’ultima possibilità di afferrare la coda appesa lassù, sempre un pelo troppo lontana.  C’era quasi… ancora mezzo giro… ma proprio in quel momento lui aveva premuto il bottone rosso e la giostra aveva cominciato subito a rallentare, togliendo al calcio del fratello quel tanto di forza che bastava a far passare le dita del cugino a un soffio dal trofeo.

Mentre la ruota rallentava e i seggiolini scendevano, il buio della sera cominciò a schiarire, la musica e il rumore della gente a farsi più lontani. L’uomo si volse a guardarsi, seduto là al quadro dei comandi, felice, e ignaro della piccola delusione che stavano provando i ragazzi sulla giostra.

La musica, il frastuono, gli odori erano già scomparsi, e adesso anche le immagini si stavano lentamente affievolendo.

Roberto… Roberto, afferrale. Non lasciarle andar via.

Incapace di reagire, l’uomo lasciò scivolare nel nulla gli spezzoni di un mondo che, se mai era esistito, ora sembrava solo frutto di un sogno sognato in un’altra vita.

Il sole era tornato a illuminare di luce soffusa il capannone nuovamente deserto. I seggiolini della giostra pendevano immobili; sulla destra il palo a cui una volta era appeso il trofeo, e da cui ora scendeva solo un troncone di fune, piegava verso la cabina della cassa.

L’uomo guardava in alto e non riusciva a staccare gli occhi da quel pezzo di corda. Nella mente gli passarono in sequenza i gesti che aveva immaginato tante volte, finché non si intromise un pensiero estraneo che lo costrinse a distogliere lo sguardo e a posarlo sulla porta aperta della cassa lì a fianco. Si diresse là ed entrò.

Il pannello c’era ancora, non era stato smontato, e anche su quello spiccava, tra gli altri comandi, il bottone di arresto, grande e rosso. L’afferrò con le dita nodose, tirò con forza, deciso, e alla fine riuscì a strapparlo via. Mentre se lo rigirava tra le mani eccitato,  gli si disegnò sul viso un sorriso sdentato di bambino felice. Uscì dallo stanzino e svelto, quasi correndo, prese la via del ritorno.

Era suo. Adesso lo doveva mettere al sicuro con tutte le altre sue cose. Poi avrebbe preso il carrello, la sua casa ambulante, e sarebbe uscito a fare i suoi soliti giri.

Quella sera però sarebbe tornato. Sì, doveva tornare lì, perché forse col buio la festa sarebbe durata più a lungo.

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