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Quattro mesi - Mario Orlandi

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Postato da: zaphod

Quattro mesi che non ci pagano.

E’ la crisi. E quei pochi soldi che si fanno ancora, se li mangiano prima i fornitori e poi le banche.

Siamo più di cento, qui in azienda. Ormai stiamo raschiando il fondo del barile. C’è chi si è fatto prestare i soldi dai genitori per pagare il mutuo, chi ha disdetto l’abbonamento alla tivù satellitare, chi ha implorato l’agente dell’assicurazione di pazientare per la riscossione della rata. Chi ha la moglie che lavora, come me, sta un po’ meglio, anche se le riserve si assottigliano velocemente. C’è malcontento, ma continuiamo a venire al lavoro tutti i giorni. Nessuno di noi vuole vedere la società andare a picco. E quindi il comportamento è impeccabile, ancora più di prima.

Ci teniamo tutti, anche io. Sono entrato che ero un ragazzino, appena laureato. Adesso ho più di quarant’anni e un figlio. Ultimamente c’è un’atmosfera funerea, perché qualcuno non ha retto lo stress dell’incertezza degli ultimi tempi ed è andato a lavorare alla concorrenza. Li ho visti lasciare l’azienda con le lacrime agli occhi.

E’ dopo che se n’è andato Davide, che lavorava qui da 22 anni, che abbiamo cercato l’ultimo appiglio, prima della catastrofe. Iniziavano a circolare parole d’ordine come: “incateniamoci ai cancelli”, “sciopero selvaggio”, “tribunale del lavoro”. A quel punto, prima che tutto crollasse, abbiamo chiesto una riunione plenaria. “Insieme si vive, da soli si muore”. Così li abbiamo convinti tutti a riunirsi in sala mensa.

E lì abbiamo conosciuto pure i rappresentanti sindacali. C’erano tutti, nessuna sigla esclusa.

“Inutile fare casino,” hanno detto, “l’unica cosa che otterreste è la chiusura immediata dell’azienda, se i fornitori si buttano sulle spoglie, non ne rimane per nessuno.”

Il problema – lo avevamo immaginato in pochi, ma lì ne abbiamo avuto tutti conferma – è la liquidità. Le banche non concedono più prestiti, ergo non ci sono soldi per le paghe. “I soldi,” hanno aggiunto, “non ce li ha manco il padrone. Ha messo tutto sul piatto. Per mandare avanti l’azienda s’è ipotecato pure casa. Se fallisce sta in mezzo a una strada insieme a voi.”

Lui è Angelo Emilio Micheli, il boss incontrastato della Unimercato. E che fosse in bolletta qualcuno di noi lo immaginava, ma sentirselo dire provocò un senso di sconforto in tutti. Quando scorrazzava in Ferrari per l’Agro pontino era un segno di distinzione. “Il boss sta uscendo,” dicevamo quando sentivamo il rombo del motore attraversare il piazzale dello stabilimento. Non c’era invidia ma orgoglio nelle nostre parole, perché se lui stava in Ferrari, a noi non faceva mancare il premio produzione a Luglio e pure a Dicembre.

Adesso sono quattro mesi che nemmeno lo stipendio prendiamo.

E la colpa – per noi, per Angelo Emilio e per i sindacati – è delle banche.

 

Che potevamo fare? Alla fine siamo scesi in piazza.

Per l’azienda, non contro. Qualcuno aveva detto che il Prefetto avrebbe potuto intercedere per dilazionare i pagamenti e sollecitare la riscossione dai clienti insolventi. Così abbiamo organizzato una manifestazione. Che poi neanche si potrebbe definire uno sciopero. Micheli ci ha concesso un giorno di permesso retribuito. “Avanzate quattro mesi, un giorno in più che differenza fa?”.

Tutti davanti alla Prefettura, quindi, ma la testa l’avevamo da un’altra parte. Il nodo stava al Banco di Credito Industriale, c’era poco da fare. Aveva chiesto il rientro di un fido di un milione di euro. Da un giorno all’altro, facendo cadere l’azienda, e tutti noi, in ginocchio. Micheli pagava la banca e noi non prendevamo gli stipendi.

Che poi la banca la conoscevo bene. Sapevo che ci si poteva entrare con un kalashnikov e nessuno se ne sarebbe accorto.

Ci siamo mossi in quattro -  io, Maurizio e due del sindacato - mentre il resto della manifestazione rumoreggiava sotto la Prefettura. Tre minuti a piedi e poi siamo entrati in banca. Solo io e Maurizio. Gli altri due aspettavano fuori. Ho salutato i cassieri, e ci siamo diretti verso l’ufficio del direttore. In ascensore ci siamo guardati, Maurizio e io. In azienda di solito ci alternavamo nei turni, ma quando c’era da spingere, spingevamo insieme. E ora dovevamo farci forza.

Mi affacciai alla porta del direttore.

“Dica a Micheli che questa settimana siamo un po’ indietro con i versamenti,” fa il direttore senza neanche guardarmi. Entro in ufficio. Lo prendo per un braccio. “Non è una rapina. Ci segua giù e non faccia storie.” La faccia che ha fatto valeva più di tutti gli stipendi arretrati.

Scendiamo giù dalla scala interna che porta dietro agli sportelli. Io davanti, il direttore in mezzo e Maurizio dietro. Gli impiegati ci guardano perplessi. E’ una piccola filiale. Tre cassieri, un ufficio consulenza e un vicedirettore. Nessuna guardia giurata. Faccio un po’ di scena.

“Da qui non se ne va nessuno finché non si trova un accordo,” e faccio un cenno ai due sindacalisti che aspettano fuori dalla banca. Li vedo attraverso i vetri che armeggiano. Per un po’ sembrano Stanlio e Ollio, alla fine riescono ad ammanettarsi alle porte d’entrata bloccando entrata e uscita. Ovviamente le chiavi delle manette non le hanno loro. Mando un sms.

In piazza della prefettura lo riceve Marco Picchio, una bestia di due metri, mani come palanche, abilità dialettica zero. La presenza fisica che ci vuole, però. Sale sul bordo della fontana e rivolto verso la pattuglia della polizia dice soltanto: “Di là”. Gli altri colleghi realizzano quanto è successo. “Hanno preso la banca, hanno preso la banca”. E iniziano a correre verso la filiale.

La cosa più difficile, adesso, è far passare il tempo. La notizia s’è diffusa, come calcolato. E’ il turno di Mario, l’artista dell’azienda. Arriva e attacca uno striscione davanti ai sindacalisti ammanettati. “Fateci lavorare!” c’è scritto con la vernice rossa.

Intanto cerchiamo di fare breccia nel direttore che, però, non vuole collaborare. Dice che non otterremo niente, che lui ha le mani legate e che comunque ci denuncerà per sequestro di persona. “Vi faccio passare i guai”. Con Maurizio facciamo finta di non preoccuparci.

 

Per tutta la mattinata non succede niente. Davanti alla banca si è formata una discreta folla di curiosi. Non era proprio come in un film, ma ci andavamo vicini. Però a voler parlare con i sequestratori - invece dei poliziotti - c’erano solo i cronisti dei giornali locali. Mi chiamavano sul telefonino e a tutti ripetevo che volevamo solo lavorare. Il tempo passava e Maurizio ogni tanto mi guardava perplesso. “Non sarà tutto inutile?” sembrava dire.

Dopo l’una, la folla s’è aperta e dal varco è passato Angelo Emilio Micheli. S’è messo davanti a Marco Picchio, che faceva la guardia ai due ammanettati. Gli avevamo lasciato le chiavi. “Tanto chi gliele prende?” m’ero detto. A Micheli è bastato aprire il palmo della mano. Marco, docile, gliele ha date. Ha liberato i sindacalisti ed è entrato in banca. Chiudendosi dietro le porte.

E’ venuto verso di noi a passo spedito. Il direttore sorrideva beffardo.

“Bravi, ma adesso levatevi dai coglioni. Devo parlare in privato col dottor Celimonti”. Poi, prima ancora che uscissimo, si è chinato verso il direttore e gli ha sussurrato qualche frase. Ancora non eravamo arrivati alla porta che il direttore ha preso il telefono e ha composto un numero: “Sono Celimonti, della filiale di Latina, dobbiamo aprire una linea di credito per la Unimercato. Rispondo io in prima persona. L’azienda è sana, ci metto la mano sul fuoco.”

Senza neanche posare la cornetta ha attaccato e fatto un altro numero: “Signor Prefetto, interverremo per la Unimercato. No, non voglio sporgere nessuna denuncia, si figuri. E’ gente che vuole solo lavorare”

Quando siamo usciti ci hanno riempito di domande e pacche sulle spalle e siamo andati a bere al bar e abbiamo giocato un po’ agli eroi. C’erano pure i giornalisti e qualche politico locale. Hanno provato a metterci in bocca slogan e dichiarazioni, ma eravamo preparati. “Quando ci si organizza alla base e si lotta per i propri interessi le cose si ottengono,” ci credevamo davvero.

Solo al pomeriggio ci siamo affacciati, Maurizio e io, all’ufficio di Micheli, e gli abbiamo chiesto che cosa aveva detto al direttore.

Micheli ci ha guardato e ci ha fatto accomodare.

“Gli ho detto: lei lo conosce Bernardo Santaclara? Voi lo sapete chi è, no?”

Certo che lo conosciamo, tutti conoscono il re dei soldi a strozzo della provincia, pare sia anche collegato con la criminalità organizzata. Un brutto tipo.

“Così ha detto pure lui, il direttore.” riprende il boss, “allora gli ho comunicato che mi ero incontrato con Bernardo Santaclara, che i soldi che mi servivano per ripianare i debiti me li sarei fatti prestare da lui, che lo sapevo che ciò avrebbe significato perdere la proprietà della mia azienda – mica sono scemo - ma che gli avevo chiesto in cambio di far spezzare le gambe a un direttore di banca di mia conoscenza, e lui aveva accettato.”

Una pausa.

“Appena gli ho detto così si è attaccato al telefono e il resto della storia la conoscete.”

Con Maurizio ci siamo scambiati un’occhiata al volo. Siamo andati verso la porta, senza dire una parola. Lui si è alzato e ci ha raggiunto. Mi ha preso  per un braccio e ci ha guardati, serio.

“Comunque, mi raccomando, per i giornalisti la versione ufficiale è l’altra. Gli eroi siete voi. Grazie.”

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