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Una resistenza tutta mia - Fabio Brinchi Giusti

Categoria: ...Altro
Postato da: zaphod

Si dice che il destino delle persone sia legato al loro nome, o meglio alle loro carte d’identità. E allora quale futuro è riservato a me? L’Anagrafe si è piuttosto divertita con me: mi chiamo Eddie –proprio così, non è un diminutivo– un nome da barzelletta, da scemo dei cartoni animati; il mio cognome è Notasafar. Dicono che papà ne andasse orgoglioso perché si chiamava così anche un matematico del V secolo. Io invece ho solo brutti ricordi legati al mio cognome e poi i miei pochi conoscenti mi chiamano tutti così –Notasafar– e ho la sgradevole impressione che lo fanno solo per accentuare la mia diversità, la mia stupidità. E poi c’è il luogo di nascita. Mwinudunga. Esiste, eccome se esiste, è una sperduta città nel cuore dell’Africa. A volte persino io faccio fatica a pronunciarlo da quanto è complicato. Ma quale che sia il mio destino, e se sia scritto nel passaporto o nelle stelle o non è scritto proprio da nessun’altra parte, oggi la mia vita assisterà ad un piccolo epocale cambiamento. Come ho già detto, la mia vita è iniziata a Mwinudunga. Non ci sono più tornato, temo che la guerra civile l’abbia ridotta ad un cumulo di macerie. Papà era ingegnere e lavorava alla costruzione di una diga e mamma l’aveva raggiunto subito dopo il matrimonio. Qualche mese dopo la mia venuta al mondo, dei banditi fecero irruzione nel cantiere e inziarono a sparare all’impazzata, uccidendo anche i miei genitori. Forse era una rapina, forse roba politica, chissà. Io fui salvato per miracolo, un operaio locale sentì i miei pianti e mi trascinò via nella giungla. Quell’operaio mi tenne con se per due-tre giorni, poi mi consegnarono ai funzionari dell’ambasciata italiana, saliti alla diga per recuperare le salme. Credevano che nessun bianco fosse sfuggito alla strage; invece c’ero ancora io. Arrivai in Italia su un volo militare e fui affidato alle sorelle di mia madre, quelle che io chiamo le Zie, come se fossero un’unica persona. Le Zie mi hanno cresciuto e ancora adesso mi accudiscono. Il sabato le porto al mare a respirare iodio e a mangiare il pesce.

Io lavoro in un ufficio qualunque. Sbrigo pratiche tutto il giorno. Una noia mortale ma non mi lamento perché alle sei sono a casa e perché ho uno stipendio sicuro alla fine del mese.

Ma oggi è un giorno diverso dagli altri. Oggi è una data storica, perché con un gesto segreto ma clamoroso, Notasafar inizierà la sua piccola resistenza. Ci ho pensato tanto e alla fine credo che resistenza sia la parola giusta per descrivere questa guerra. La mia non è e non può essere la guerra del soldato, sono troppo debole per una battaglia a viso aperto, otterrei molte perdite e nessun risultato concreto. La mia è la guerra del partigiano, che vince piano piano, che logora il nemico con piccoli e terribili gesti. E poi quando il nemico sarà indebolito, scatterà la rivoluzione.

Mi avvicino a scatti guardingo alla sua scrivania. È incastrata lì nell’angolo, in una posizione dominante. Il nemico o meglio il tiranno, ha scelto bene il luogo dove imporre il suo potere. Osservo con sommo disprezzo i vari gingilli che abbelliscono il suo tavolo di castagno. Gingilli da donna, perché il tiranno è una lei. Dio mio, anche se non c’è si sentono i suoi tacchi alti che puntellano il pavimento, si vede lei che cammina sicura e decisa con i capelli lunghi e il viso truccato. La vedo che ordina, che dispone, che giudica, che critica: “Tuo marito si dimentica sempre l’anniversario? Oh, devi lasciarlo subito!” sibila ad una collega. Oppure commenta acida con un altro che i sabati va in discoteca: “Tse, crede di avere vent’anni quello là” o contro una gentile signorina che dopo che è rimasta incinta ha dato le dimissioni. “Ha umiliato cent’anni di emancipazione femminile. Doveva impuntarsi col capo!” Eh già, perché lei non è il capo. Lei è una semplice impiegata come me, stesso grado, stesso stipendio, ma si crede la padrona dell’ufficio. A me ricorda sempre perché sono scapolo: “Notasafar tu sei troppo strano per avere una moglie” e quando le Zie hanno voluto comprare a tutti i costi la 500 viola, lei ha aspettato il mio ingresso con un sorrisino compiacente: “E quella la chiami macchina?”.

I miei colleghi la pensano tutti come me. L’ho scoperto mentre si stava organizzando la gita aziendale. È un rito terribile che al capo piace tanto e che ci fa compiere ogni anno all’inizio della primavera. Noi volevamo andare al mare, lei s’era impuntata su un agriturismo in collina. E poiché era lei che si occupava dell’organizzazione, la gita è stata fatta lo stesso all’agriturismo. Ricordo i mugugni e le proteste sottovoce degli altri ragazzi. Ad un tratto domandai perché nessuno aveva protestato col capo o con lei, avevo lottato, aveva sbattuto i pugni sul tavolo, aveva protestato e i miei colleghi avevano scosso la testa: “Ah…caro Notasafar, certo che tu sei davvero strano!”

E così iniziai a pensare alla mia resistenza. Era giunto il momento di passare dalle parole ai fatti. Se gli altri erano troppo codardi o troppo menefreghisti per reagire, ci avrei pensato io a liberarli dalla tirannia. Contemplai la scatola verde che stringevo fra le mani. La posai sul tavolo. Quando il nemico l’avrebbe aperta avrebbe visto un viscido topolino bianco sgusciare via. L’urlo impaurito e scandalizzato di lei sarebbe stato il primo delizioso rumore della vittoria.

“Notasafar è già qui? E cosa sta facendo con quella scatola?”

E’ il capo.

“Io…io…d-d-d-dovevo c-c-c-consegnare q-questo alla s-s-signorina…”

Il capo scuote la testa: “Ah…ma in quale ufficio lavori? Non lo sai che la signorina si è trasferita a Londra.”

Rimango per un po’ interdetto a fissare la scatola. Il topolino si è svegliato e corre su e giù tamburellando con le zampette sul cartone. La tiranna s’è andata, l’ufficio è di nuovo libero. Ci ha pensato il caso, attraverso l’ufficio del personale, senza aspettare la mia resistenza. La rivoluzione era arrivata senza di me. Ho passato giorni a studiare il mio piano e poi ma… Però sento lo stesso aria nuova nei polmoni. Non c’è dentro di me il familiare sapore della sconfitta. Ripenso a quando nel silenzio della mia camera, studiavo la mia resistenza in ogni minimo dettaglio. E capisco che non era la vendetta l’energia che mi scaldava l’anima. Per la prima volta nella mia esistenza, sceglievo io la mia vita. Io decidevo cosa fare e cosa non fare, io ero padrone dei miei sbagli e dei miei errori, ero padrone di un’eventuale vittoria, ero padrone del mio destino. Io, una volta tanto, così sicuro di me, così deciso, così determinato, così superiore alle mie paure, alle mie insicurezze, al bisogno disperato di chiedere consigli. Ero libero. E forse è questa la vera resistenza, la vera rivoluzione, quella più difficile, quella che forse non finisce mai e dura tutta la vita, quella da fare dentro di sé. 

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