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Salvatelo - Graziano Lanzidei

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Postato da: zaphod

Come va? Lasciamo stare, dottore. Anche se ce l’ho fatta da quasi tre anni. Forse è merito suo, forse è un segno divino, forse è soltanto il fatto che tanti sforzi, alla fine, un risultato positivo lo producono. Per me è  una liberazione. Lei sa quanti problemi mi ha creato. Si ricorda mia figlia? C’è voluto parecchio per farle capire che quello che faceva il papà non era normale. Un giorno ci chiamarono dall’asilo perché lei non continuava a fare altro. “Come mio papà” diceva alla maestra. “Come mio papà” continuava a ripetere quando davanti al direttore didattico avevamo cercato di spiegare che, per problemi fisici, a casa non riuscivo a contenermi. Loro mi chiesero se c’era un modo per evitare di farlo davanti a tutti. “Ho provato”, giurai davanti alle insegnanti di Daria. E ho raccontato di quella volta – lo ricordo come fosse ieri mi creda – che mi dovettero portare d’urgenza al pronto soccorso. Non se lo ricorda? Insieme ad amici eravamo andati a fare una passeggiata al mare. Era un periodo che sembrava ci fossero stati dei miglioramenti. Fu per questo che assaggiai il gelato di Tatiana, mia moglie. “Cosa mi può fare?” pensai. Dopo qualche secondo lo stomaco iniziò a gorgogliare, ho sentito l’aria che saliva lungo la trachea. Probabilmente avrei dovuto fare qualche passo indietro, voltarmi, approfittare di qualche rumore esterno. Invece ho solo cercato di trattenermi. Da quel momento non ricordo più niente. So soltanto, per i racconti che m’hanno fatto poi, che sono svenuto e m’hanno dovuto portare al pronto soccorso. Quattro giorni di ricovero. Esami, prelievi, Tac senza che risultasse la minima cosa. Mi dimisero con una diagnosi secca: aerofagia acuta. Per la scienza medica insomma… io ruttavo, ruttavo e basta. A volte sembrava un ruggito, a volte era sibilante, a volte, e sono quelle che mi facevano vergognare di più, sembrava il nitrito di un cavallo. “Si, ma mentre sta morendo”, mi diceva mia moglie.  Con lei? No, nessun problema. Pensi che si scusava sempre con gli altri. “Non è colpa sua, non lo fa apposta”. E quando leggeva perplessità negli occhi dei parenti, degli amici, degli estranei, insisteva ancora dicendo “se non lo fa si sente male, davvero”. Mi voleva e mi vuole bene, come le dicevo. M’ha sempre conosciuto e accettato così. Sin da quando siamo usciti la prima volta. Ci vedemmo al cinema, lei comprò i pop corn. All’inizio cercai di non prenderne nemmeno uno. Poi… sarà che l’ho sentita sgranocchiare con piacere… sarà che quando mi sono girato e l’ho guardata, sono rimasto incantato… dal movimento delle mandibole, dall’estasi dello sguardo. Aveva anche, appena accennato, un sorriso sulle labbra. In quel momento mi sono dimenticato dei miei problemi. Ne ho preso uno e dopo qualche secondo… è arrivata la condanna. Me lo ricordo come se fosse oggi. Si girò mezzo cinema. La sera stessa, rosso come se m’avessero bruciato vivo, le ho spiegato il mio problema. Le ho promesso che non l’avrei fatto più. Ed è in questa maniera assurda che è nata la nostra storia d’amore. Da allora, non ci siamo separati, nemmeno per un giorno. E lei ha capito così profondamente le mie difficoltà che, come le ho già detto, ogni volta che si manifestava il problema, era come se desse voce alle mie paure, alla mia vergogna, al mio senso di inadeguatezza. Poi è capitato di rado, solo quando mangiavo tanto o quando ero molto stanco. Non avvisava, non sentivo nessun sommovimento allo stomaco, arrivava e non riuscivo a fermarlo. La bocca era come se si spalancasse da sola. Al matrimonio di mia figlia, immagini, con mia moglie c’eravamo preparati scrupolosamente. Mi sarei dovuto alzare, ad ogni portata, ancora con il boccone in bocca. Andare in bagno e aspettare il momento. Poi sarei potuto tornare. C’eravamo inventati la scusa di un virus allo stomaco. “Ma non potevo mancare al matrimonio della mia principessa”. La famiglia di Giulio, il marito, non era mai venuta a conoscenza di questa mia difficoltà. E così durante l’aperitivo non toccai nulla. Poi ci sedemmo a tavola e iniziammo a mangiare. Vicino a me c’erano i testimoni. Mia figlia e il marito erano seduti davanti. Lei sorrideva mentre mia moglie si commuoveva a vederla tutta vestita di bianco e mi stringeva la mano. E’ arrivato il momento dei discorsi. Prima toccò al padre di Giulio. Fu breve. Mi ricordo che si sedette quando stavo ancora cercando di pensare a come esordire. Mi alzai. “E’ un giorno speciale” dissi “per noi genitori e per tutta la famì…” e lì successe il patatrac. Durò qualche secondo, m’ha poi detto mia moglie, ma quegli istanti sembrarono ore. Ho il ricordo di aver guardato tutti gli invitati, uno a uno. Mi ricordo lo sguardo allibito di Giulio e della madre. Il padre che alzò il bicchiere come per brindare. Sento ancora sulla mano la stretta di mia moglie. A mia figlia si gonfiarono gli occhi di lacrime. La signora Clotilde, la vicina di casa, si era limitata a scuotere la testa mentre padre Markus aveva chiuso gli occhi. Ho sempre pensato che stesse pregando Dio per cancellare per sempre quel momento dalla vita di ognuno di noi. Soprattutto dalla mia. E’ stata una sciagura, dottore. Quando la gente mi conosceva bene, lo trovava anche divertente. Ci sono amici, a cui siamo stati costretti a raccontare tutto, che voleva venire sempre a cena a casa nostra. Più di qualcuno m’ha detto che sarei dovuto andare a vivere in Svezia. Dice che lì è usanza ruttare dopo il pranzo in segno di gradimento. “Sai che soddisfazione gli dai?”. C’è invece chi mi riteneva un maleducato e che ci evitava come la peste. Mi sono rivolto a mille specialisti, pubblici e privati. M’hanno sempre detto che era il modo di mangiare, che lo facevo troppo in fretta. “Deve masticare piano, con calma, almeno 30 volte”, mi disse un professorone di Bologna. La sera stessa misi in pratica il consiglio. Mia moglie aveva preparato una bistecca e, per contorno, dei pomodori. Appena finito di masticare, ebbi il tempo di bere un bicchiere d’acqua e poi il solito patatrac. Mi sentirono fino all’attico. C’è chi venne a suonare al campanello per sapere se era tutto a posto. Chi gridò al terremoto e scese in strada. “Sembravi un leone” disse mia figlia, ancora adolescente. Lei dice che va tutto bene? E no, dottore. Mi lasci finire. Ho più paura di prima. Perché? Ieri stavamo con mio nipote, il figlio di Giulio e di Daria. L’avevamo messo in culla, dopo avergli fatto prendere il latte. Loro erano usciti con gli amici. Sa, si concedono una pizza fuori ogni tanto, e noi gli teniamo volentieri il pupo. E anche lì ancora patatrac. Ho sbiancato perché all’inizio ho pensato fossi stato io. Avevo visto anche mia moglie che alzava gli occhi al cielo. Poi ci siamo girati ed abbiamo visto le vespette appese sopra la culla. Sembravano impazzite, giravano vorticosamente. E un vago odore di latte ha iniziato a diffondersi nell’aria. No, a mia figlia non ho detto niente, dottore. Ma lo deve salvare. Non può passare quello che ho passato io.

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