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Morire, tutti, un giorno per volta - Stefano Tevini

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Postato da: zaphod

Come ogni sera, la mia passeggiata del dopo cena mi porta lungo il viale alberato che conduce al vecchio asilo.

Forse un giorno lo capirò, il motivo per cui continuo a farmi del male.

A voler vedere soffro già abbastanza per conto mio, senza venire qui a stimolare con una lingua immaginaria una piaga al centro del mio essere che già da sola avrebbe difficoltà a rimarginarsi.

E non sono nemmeno quello che sta peggio! Basta guardare Ernesto, chino dietro lo scivolo di plastica a estirpare le erbacce, la cura che ci mette è pari soltanto all’inutilità del suo lavoro. Sì, perché tanto non ci verrà più  nessuno, all’asilo. Né in questo, né in altri. Ma Ernesto non ci vuole mica credere, lui tiene tutto in ordine come se non fosse successo niente e i bambini dovessero arrivare domani.

 

“Il virus Erode”, era il titolone ad effetto che faceva impennare gli ascolti quando ancora non ce ne  rendevamo conto, e credevamo non fosse vero.

“Allarme sterilità”, si annunciava con maggior sobrietà quando la malattia è diventata la pandemia che ha spuntato definitivamente l’arma che ci permetteva di penetrare il tempo e di perpetuarci in esso.

“Fine…?”, leggevamo non senza riporre speranze in quel punto interrogativo quando sapevamo che non sarebbe mai più nato un bambino, quando abbiamo appreso con certezza la nostra condanna come specie a morire di vecchiaia.

 

Ernesto non lo ha mai voluto accettare, e ha perso il cervello. Bada all’asilo tutto il giorno e mugugna canzoni per bambini. Nemmeno risponde, se gli si parla.

Come Veronica, che prima di sparire mi ha lasciato un disegno di una casa e noi due che teniamo per mano un bambino. Il disegno, stilizzato con gli omini fatti di linee semplici con le teste a palla, è ancora dove me lo ha lasciato, sulla scrivania della cameretta del bimbo che avevamo deciso di avere.

Avevamo, poi com’è andata lo sappiamo.

 

Apro il cancello e percorro il vialetto di accesso fermandomi a far girare la giostra sempre ben oliata.

Una volta entrato mi soffermo a guardare la sala della mensa, la tavola apparecchiata, nel cui ordine maniacale l’assenza assume una consistenza quasi fisica, come se l’aria stessa fosse gelatina e il ronzio sommesso dell’impianto elettrico la facesse tremolare.

Esco in giardino e, levatomi le scarpe, faccio due passi nella sabbionaia lasciando che la sabbia mi si infili fra le dita dei piedi cedendo un po’ sotto il mio peso.

 

Quando mi sono reso conto di quel che tutto questo avrebbe implicato, ho cominciato a venire qui un’oretta al giorno, diluendo con qualche goccia della dolcezza qui rimasta l’impasto compatto di sofferenza grigio cemento.

Vengo la sera, per rendere più sommessa l’allegria insostenibile dei colori sgargianti dei giochi e delle pecore dipinte sui muri.

 

Rimesse le scarpe imbocco l’uscita. Sulla soglia mi fermo e giro i tacchi, mi avvicino ad Ernesto e mi chino ad afferrare un’erbaccia e tiro forte.

 

“Giro giro tondo / casca il mondo”.

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