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Un battito d’ali - Massimiliano Lanzidei

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Postato da: zaphod

In azienda siamo pieni di animali. I proprietari sono fissati. Cani, gatti, canarini, ma anche tartarughe, criceti e pappagalli. Di pappagalli un’infinità, di tutti i generi. Non esiste ufficio o reparto in cui tu possa stare per più di dieci minuti senza sentire uno stridio o un richiamo.

Una volta è fuggita un’ara, il tizio che gli dava da mangiare ha lasciato la porta della gabbia aperta un secondo di troppo e quella, via. Ha colto l’occasione e se ne è scappata.

Un’ira di Dio.

S’è scatenata la caccia. Un’ara non è un pappagallino che compri al mercato. E’ nobile, maestoso, dalla gabbia ti guarda con la fierezza di un re in esilio. Quel giorno s’è fermata pure la produzione. Stavamo tutti in giro a cercare il pappagallo fuggiasco. Nei giardini intorno allo stabilimento, sopra i tetti dei capannoni, sugli alberi dei parcheggi.

Niente.

Quando ha fatto buio, abbiamo interrotto le ricerche. Gli addetti alla cura degli animali hanno lasciato la gabbia aperta, piena di ogni ben di dio. Frutta secca, macedonia, mangime specialistico. Gli uccelli delle altre gabbie guardavano con invidia.

Confidavamo di tornare al lavoro il mattino dopo, e trovare l’uccello rincasato durante la notte.

Manco per niente.

La mattina appresso la gabbia era come l’avevamo lasciata la sera prima. Solo la frutta fresca aveva cominciato a guastarsi e ad attirare un nugolo di mosche e moscerini.

A mezza mattinata, mentre tutti ormai fantasticavamo sul viaggio del pappagallo verso sud, alla ricerca di climi più temperati, sentiamo un urlo dal parcheggio.

“Eccolo.”

Sono stato il primo a uscire: stavo proprio vicino all’uscita che dà sul piazzale. Ho spinto il maniglione antipanico e mi sono ritrovato fuori. E l’ho visto. Solo io e il collega che aveva strillato dal parcheggio abbiamo potuto godere di quello spettacolo.

Ha spiccato il volo da uno degli schinus del giardino, ha attraversato tutto lo spiazzo ed è atterrato planando in cima alla quercia sul lato dello stabilimento. Uno spettacolo di colori che hanno acceso per un lungo attimo il grigiore plumbeo di quella mattina invernale. Un’apertura alare enorme, libera alla fine di distendersi dopo anni di prigionia.

E noi, due privilegiati, unici testimoni di quello spettacolo. Poi sono arrivati tutti gli altri e si è rimessa in moto tutta la manfrina.

Chi dava un consiglio, chi ne dava un altro, ognuno aveva la sua da dire.

“Attacchiamo Sergio alle forche di un muletto e lo alziamo fino lassù.”

“Datemi mezz’ora di permesso, arrivo a casa, prendo la doppietta e ve lo porto giù io.”

Altri invece si cimentavano in gesti e versi di richiamo, come si fa coi cani o i gatti, e altri ancora gracchiavano tentando di imitarne il verso.

Alla fine uno ha pure gridato “Portobello!”, e in quel momento mi sono reso conto della mia età. Ero dalla parte di quelli che hanno riso. Gli operai più giovani non hanno neanche capito la battuta.

(No, a dire la verità non hanno neanche capito che si trattava di una battuta. Vagli a spiegare, a gente che negli anni settanta i genitori ancora si dovevano conoscere, dell’affinità tra Tortora e pappagallo, in barba a tutte le differenze ornitologiche.)

“Che cazzo sta succedendo?” ha strillato a un certo punto Marino, il responsabile del reparto confezionamento, zittendo tutti, “le macchine sono ferme, rientrate subito dentro!”

Il proprietario dell’azienda si è girato e lo ha fulminato con lo sguardo, poi è tornato a controllare che il pappagallo non se ne fosse andato, spaventato dalle urla.

Non se ne era andato.

Noi, comunque, a scanso di equivoci, ce ne siamo rientrati tutti nello stabilimento e abbiamo fatto ripartire le macchine.

Solo nel primo  pomeriggio c’è giunta notizia che in seguito a un tentativo di approccio a base di lunghissime pertiche il pappagallo era scappato. Eppure in cima ci avevano innestato un pastone, a dire degli esperti, prelibatissimo, una vera leccornia, e nonostante ciò l’ara aveva spiccato il volo e varcato in via definitiva i confini delimitati dalla recinzione dello stabilimento.

Di qua aveva lasciato una compagna, vitto e alloggio sicuro, e una serie di nasi all’insù in attesa del suo eventuale rientro. Di là, l’ignoto.

Per parecchi giorni abbiamo continuato ad alzare gli occhi al cielo nella speranza di scorgere ancora il bagliore colorato di quel piumaggio.

Ancora adesso, ed è passato più di qualche mese, mi sorprendo, ogni volta che attraverso il piazzale, ad alzare lo sguardo sulla quercia sulla quale si era appollaiato, prima di scappare via.

E poi, in un gesto automatico, verso l’orizzonte, oltre i confini dell’azienda.

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