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Il campo dei ricordi - Stefano Meglioraldi

Categoria: ...Altro, Foto terapia, Progetti
Postato da: zaphod

Era casa mia, anzi era più che una casa: era il luogo dei ricordi.

Il luogo della mia fanciullezza, dove venivo a giocare o a nascondermi, per sfuggire alla realtà, ai compagni che mi volevano male. Il luogo della mia giovinezza: quando odiavo il mondo, o quando volevo incontrare lei. Per un periodo di tempo era stato anche il luogo dell’amore. Ed ora era il luogo del dolore e del riposo; di un uomo solo, che stanco di girare voleva solo sistemare il suo vecchio campo dietro casa, la sua anticamera per la pensione.

Dove sei Aurora adesso? Perché m’hai lasciato solo… Ora che ho tempo, ora che ho finito di correre e di girare, ora che sono a casa.

Era il mio giardino; vi ero cresciuto. L’avevo riempito di macchinine, seppellite da qualche parte, di biglie perdute, di spago e di corda. Quante ore passate a giocare. Avevamo costruito una casetta sull’albero, io e Tommy… lo ricordo come fosse ieri: l’impegno, le risate, l’aiuto di mio nonno. Le arrabbiature. La corda per scendere, per calarsi; quella da cui Tommy era caduto rompendosi un polso. La torta di mele che ci aspettava dopo le nostre scorribande. E la lotta con Jerry lo stronzo che veniva a rubarci i nostri tesori… e cercava di picchiarci. Soprattutto me. Jerry e la sua banda: Cesco, Cristian e Pizza, piccoli teppisti in erba… Quanto darei per incontrarli adesso!

Con la mano destra strinsi una pietra seminascosta nell’erba. Non era decoroso per uno della mia età stare sdraiato a terra. A piangere.

Ma chi se ne frega! Non c’è nessuno qui tranne me… e i miei ricordi… Dove sei Aurora?

Non era stato un problema trovare lei, invece. Quando ero arrivato – in ritardo – mi stava aspettando ai piedi dell’albero, un sorriso malizioso dipinto sul volto. Era fatta così. Non gli importava se era vestita bene, si sarebbe arrampicata sull’albero con la gonna linda appena sfoggiata. E non gli dispiaceva neanche togliersela…

Quanto l’ho amata.

Era seduta sull’erba e mi guardava. Nemmeno io ero male a quel tempo, convinto di essere padrone della mia vita e deciso a conquistare il mondo. Ma con lei non c’erano paragoni.

Dove sei andata?… Amavi le giornate come questa, piene d’elettricità statica. Pregustavi il temporale in arrivo,ti piaceva percepire la frizzante energia in azione, pronta ad esplodere nello scontro; eri piena di vita, e perciò in tumulto come i tuoi ormoni giovanili.

Anche quando tornavo a casa, i pochi intervalli tra i miei lunghi viaggi, eri lì ad aspettarmi. Anche se i capelli ingrigivano e la casa ed il giardino si deterioravano esternamente, tu eri lì, il sorriso sul volto. Inattaccabile. Non poteva vincere il tempo su di noi. Non poteva.

Finché la sirena non ci accompagnò all’ospedale. Finché il dottore non mi parlò in privato. Finché non toccai le tue mani fredde…

Gli steli d’erba bagnata mi pungevano il volto. Erano il mio unico conforto, mentre ripensavo alla mia vita e al mio giardino, e non riuscivo più ad immaginarti con me… Ero solo, come lo ero sempre stato, e piangevo… non per te, ma per me.

Perdonami, Aurora…

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