L’attesa - Annamaria Trevale
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Postato da: zaphod
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E dopo tanti anni li aveva ritrovati tutti lì, gli odiati fratelli da cui era fuggita un’eternità di tempo prima perché dentro di loro l’avevano ripudiata e cancellata dalla famiglia considerandola indegna.
Se ne stavano tutti in attesa in quell’androne inospitale, anonimo e squallido come tutti i luoghi pubblici, che fungeva da precaria sala d’aspetto per il pronto soccorso del minuscolo ospedale dove era stato ricoverato Osvaldo, il fratello maggiore, investito da un furgoncino mentre attraversava la strada a pochi passi da casa.
Osvaldo che venticinque anni prima l’aveva picchiata insieme al padre chiamandola svergognata ed ora, le avevano detto, nel delirio chiedeva di lei. Che stesse già intravedendo le fiamme dell’inferno e cercasse di schivarle all’ultimo minuto? Lucia non aveva nessuna intenzione di perdonarlo per farlo gentilmente passare in Purgatorio: bruciasse pure per l’eternità.
Giuseppe ora era calvo e portava gli occhiali, cercava di mostrarsi conciliante e pieno di dignità, ma quella che le aveva presentato come sua figlia maggiore, Cristina, era una ragazza dall’aria schifata che se ne stava seduta in un angolo col cellulare incollato all’orecchio e non appariva per nulla interessata al destino dello zio Osvaldo.
Del resto non si vedeva nessuna manifestazione di affetto o preoccupazione neanche sui volti degli altri presenti, pensò Lucia lasciando correre lo sguardo sui due fratelli minori, che apparivano più annoiati e a disagio che addolorati: Carmine, così goffo nella sua giacca di pelle fuori moda, e Salvatore con la solita faccia da tonto che non era certo migliorata invecchiando. Bella compagnia davvero…
“Sei arrivata in fretta” disse improvvisamente Giuseppe.
“Lo sapete bene che non abito molto lontano, avete il mio indirizzo” rimbeccò Lucia.
“E perché non vieni al paese, qualche volta?” domandò Salvatore.
“A fare che? Non abbiamo niente da dirci. Mi avete trattato come una sgualdrina, e io non lo dimentico!”
“E via, Lucia, sono passati tanti anni, sei una madre di famiglia adesso, hai un marito e dei figli, il passato è passato…” azzardò Carmine con un sorriso conciliante.
“Ah, ecco! il marito e i figli sistemano tutto. A diciannove anni, invece, ero una svergognata da riempire di botte perché aspettavo un figlio senza essere sposata, vero? E quel maledetto che sta di là al pronto soccorso mi picchiava di gusto, oh se mi picchiava!”
“Osvaldo sta male e ha chiesto di te. Forse vuole chiederti perdono, non ci hai pensato?” chiese Giuseppe.
“Sì, ci ho pensato. Ma non ho nessuna intenzione di perdonarlo, perché non posso cancellare così tutto il male che mi avete fatto, gli anni dolorosi che ho passato per colpa vostra e il tempo che ho impiegato per ricostruirmi una vita decente. Troppo comodo perdonare adesso.”
Un infermiere si affacciò alla porta che metteva in comunicazione la sala d’aspetto con il resto del reparto.
“Il signor Rosati deve essere trasferito in un ospedale più attrezzato di questo, stiamo preparando l’ambulanza. Qualcuno di voi lo può accompagnare?”
I fratelli si scambiarono sguardi indecisi, finché Salvatore annuì sospirando.
“Vado io.”
Lucia si avviò verso una porta che comunicava direttamente con l’esterno, spalancata sul piazzale umido di pioggia.
“Io torno a casa, fatemi sapere se ci saranno novità.”
Si avviò con passo sicuro oltre la fermata dell’autobus, verso il parcheggio dove aveva lasciato l’auto, e nessuno dei fratelli osò dire nulla per trattenerla più a lungo.