Monologo di un astante - Roberto Ceccarini
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Postato da: zaphod
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La vediamo uscire dalla sala d’aspetto di una stazione qualunque, con la camminata rigida, tipica di chi è disperato. Sotto l’ombrello, quella donna sembra quasi rimbalzare sull’asfalto, il passo scompagnato con il resto del corpo, il capo tra le spalle strette, a guardare in giù, il busto curvo in avanti. Te, che con gli altri tizi nella sala d’aspetto attendi che smetta di piovere, non puoi fare a meno di chiederti come faccia ad andare avanti. Il fattaccio del boschetto: nel boschetto un mese fa è accaduto qualcosa di terribile, che ti toglie il fiato. Per giorni ne hanno parlato tutti: media, carta stampata. Una disgrazia hanno detto, lo hanno detto in tutte le salse. Poi il silenzio, il nulla, un’angoscia che prende allo stomaco e devi annaspare come un sub a pelo d’acqua per prendere aria, respirare, cercare di dare un senso alle cose.
Perdere un figlio, così, ti manda al manicomio. Un figlio. Ci pensate? Come si fa a stare senza un figlio? Mentre rimugini, vedi anche gli altri fissarsi su quel passo, su quella giovane donna che mestamente s’allontana sotto la pioggia. Tutti a pensare la stessa cosa. A pensare a quella poveraccia, a come farà ad andare avanti.
Mentre la strada si fa più larga, quel puntino laggiù non lo dimentichi, non va più via, ti rimane dentro per tutto il giorno, come una macchia. Ogni tanto tira fuori la capocchietta, che poi è l’immagine triste di quella madre che scompare nella strada, e ti viene il panico. Ti fa pensare alle persone che non esistono più, che sono sparite dai tuoi occhi. Dai tuoi occhi che hanno visto un pezzo di vita degli altri e che molte volte quel pezzo non l’hanno capito. Poi pensi alle persone che ami, che ti sono vicino, che spesso non comprendi, non segui. Ti limiti a girargli intorno, entro i loro confini, a deambulare tra le loro cose. Come in trincea aspetti rannicchiato che succeda qualcosa, che ti cada addosso un pezzo di mondo e speri che non succeda nulla. Ritrovi così l’angoscia esistenziale con la quale ti sei imbattuto tra i banchi di scuola, quando pensavi che le compagne non ti guardassero, i compagni erano vestiti meglio e se facevi qualcosa che non si poteva fare, venivi beccato. Non c’era scampo. Non c’è scampo per chi ha una coscienza. Prima o poi la coscienza si fa viva, si manifesta. Ti prende per mano o per il colletto, ti scuote. Ti fa guardare indietro, consuntivare, ti fa sentire meno di zero. Ti mortifica, la coscienza. Fa scorrere il passato, i suoi fantasmi. Tanti fantasmi che procedono lentamente come in una processione, un’eterna preghiera. Poi ti abbandona, ma è troppo tardi: le litanie più disperate sono già state cantate, i fantasmi irrimediabilmente esposti.
Sospiri dentro la sala d’aspetto di quella stazione, dove non c’è più nessuno, perché ha smesso di piovere, perché il mondo va avanti dentro una bolla, come sempre, come gli pare e il sole non perde tempo: allunga un’ombra dritta sopra le scarpe di chi è rimasto.