Daniela Rindi - Infelicità: complemento d’emozione
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Postato da: zaphod
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Si chiamava Natale, perché era nato il giorno di Natale, era un ex ferroviere, ma iniziò come “Frenatore”. Ai tempi, in cima ad ogni vagone c’era un piccolo scompartimento di pochi metri quadrati, all’interno un volano che, quando la motrice frenava al segnale del macchinista, ogni frenatore doveva girare a mano per rallentare il proprio vagone. Non ha mai fatto carriera perché antifascista vero. Un giorno, mentre stava tornando a casa alla fine di un turno, fu fermato da una squadra. Fu interrogato e fortunatamente rimandato a casa, ma fu lui a frenare il treno nella galleria tra la stazione di Rio Maggiore e La Spezia, per permettere lo scarico dei sacchi di farina. Lo sapevano tutti. Quando andò in pensione non interruppe la sua attività al sindacato, continuò a procurare tessere, a presenziare a riunioni e si mise pure a fare il calzolaio, per aiutare un amico. Sua moglie si chiamava Maria, entrambi nonni di innumerevoli nipoti, a loro volta figli di numerosi figli, però soli, chiusi nella loro vecchiaia quasi centenaria. Sono sempre stati poveri, una modesta casa in curva con un piccolo balconcino affacciato sulla ferrovia, a Pegazzano. Il treno era una presenza che, col suo suono rassicurante, accompagnava le loro giornate, un passaggio ritmato e inesorabile… tutum tutum tutum tutum. Carne una volta al mese, per il resto molta minestra di patate. La stufa era sempre spenta, la legna costava troppo, allora Maria la sera sferruzzava maglioni e sciarpe uno dietro l’altro. Il tempo si muoveva lento, come i loro corpi anziani. Ogni mattina lui andava a passeggiare lungo la ferrovia… Ricordava quando con i suoi compagni di scuola veniva lì a giocare agli indiani, si sdraiavano poggiando le orecchie sui binari, per sentire le vibrazioni dell’arrivo del treno. Il treno rappresentava i cow-boy, i sassi erano le frecce degli indiani. Ad un certo punto Maria s’ammalò, non si sa bene di cosa, all’epoca uno stava male e basta… Il male era all’intestino, fu operata, le inserirono un ano artificiale, che servì solo a rendere la vita un inferno ad entrambi. Doveva fare tutto lui, la spesa, gestire la casa, accudirla, cambiare il catetere, svuotare il sacchetto delle feci. Senza mezzi, senza medicine, ogni notte addormentarsi diventava sempre più difficile e insopportabile. Neanche lui dormiva più, non sopportava la propria impotenza. Tentò di comunicarlo ai figli, di chiedere aiuto… Una vita passata uno accanto all’altro è sufficiente a rendere inaccettabile una fine sbagliata, a farti soffrire al punto di sfiorare la follia. Quella notte questo doveva essere il sentimento che guidò la sua mano, impugnato un martello, a colpirla così forte sulla fronte. Per ben tre volte il sangue gli schizzò sulla faccia. Andò poi in cucina, si asciugò il viso, prese dal cassetto un coltello, tornò in camera e si sdraiò a letto affianco a lei. Le prese una mano, se la strinse al petto e con l’altra fece correre la lama lungo il collo.
Così li trovarono il mattino dopo, in un letto di sangue, mano nella mano…a novant’anni.
Non erano morti, però, questo il paradosso, questa la tragedia. Le sue mani erano troppo fragili per infierire colpi mortali.
Lui fu rinchiuso nel carcere psichiatrico a Montelupo Fiorentino, poi successivamente trasferito all’ospedale psichiatrico di Castiglione delle Stiviere. Questo gesto d’amore folle li separò per sempre, lei non lo perdonò mai. Morì per un raffreddore a 91 anni.