King of Mistery - Lo stato delle cose
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Postato da: zaphod
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Mi accorsi di quello che stava succedendo soltanto quando svoltai l’angolo.
Un’amica che era con me trattenne un grido. Io rimasi interdetta per qualche attimo.
Eravamo in una delle strade principali della città.
In lontananza, quasi alla fine della strada, una folla di giovani, dall’età incerta tra i sedici e i trent’anni, cercava di avanzare contro una folta schiera di carabinieri in tenuta antisommossa. Le loro divise erano come un’immensa bocca nera pronta a divorare il bocconcino umano che avevano davanti. Si udivano, soffocati, i rumori delle pietre e di altri proiettili improvvisati sugli scudi, i quali lentamente avanzavano, impercettibilmente.
Ai lati della strada nuvole di fumo si levavano, echi di battaglie e scontri non ancora spenti. Alcuni fuochi stavano iniziando a divampare. Tutt’attorno, desolato e impressionante, il silenzio.
Sapevo di che si trattava. Gli slogan urlati e le scritte negli striscioni parlavano chiaro. Era una causa che condividevo; una causa per la quale, a dire il vero, avevo già combattuto, nel mio piccolo, qualche tempo prima.
Ma qui il conflitto si faceva decisamente più esteso. E la piega degli eventi suggeriva anche come sarebbe andata a finire. Ma non c’erano tante alternative. La situazione era precipitata da molto tempo e tutti i rimedi adottati non avevano portato a niente. L’unica soluzione era stata la più estrema, la più coraggiosa, la più terribile: quella che forse avrebbe portato a maggiori risultati, o alla definitiva condanna dei manifestanti. Ci si giocava il tutto per tutto.
E io, stando così le cose, non potevo certo rimanere dov’ero, con le mani in mano. Guardai i manifestanti. Diedi borsa e quaderni alla mia amica e feci qualche passo verso di loro.
Quando vide cosa avevo in mente di fare, la mia amica scattò indietro, con paura, e si allontanò.
Non mi pentii un istante della mia decisione. Noi combattevamo per una causa giusta e davanti avevamo dei nemici. Nemici che dovevamo contrastare, se non sconfiggere.
Nelle ore seguenti fu tutto un susseguirsi di cori, grida, attacchi, avvicinamenti, indietreggiamenti. Ogni tanto qualcuno rimaneva solo e veniva colpito. Subito era inghiottito dalle fauci della bocca nera. Ma continuavamo a lottare.
Intanto ci eravamo spostati. Avevamo guadagnato un’arteria principale della città. Era nostra.
Ci trovavamo in un centro abitato. Tutt’attorno passanti immobili che ci guardavano sdegnati, automobilisti indifferenti e gente che si affacciava alle finestre con aria divertita.
Una scena mi colpì, e mi strinse il cuore.
Un ragazzo era stato circondato dai carabinieri e portato via. Una donna piangeva ai lati della strada. Supplicava – non capivo bene le parole, perché strozzate dai pianti – di lasciarlo stare, di non trattarlo così, che non c’era bisogno di tanto odio.
Una morsa amara mi avvelenò il petto, e rimasi immobile sulla strada mentre i nostri continuavano i loro assalti.
Lo scontro continuò, ma io non me ne accorsi perché invasa da mille pensieri.
Poi mi riscossi.
Avevamo faticato tanto, avevamo lottato tanto per cosa? Per arrenderci alla fine? Per lasciarla vinta agli altri? C’eravamo dentro fino in fondo. E dovevamo giocarci il tutto per tutto.
Allontanai quella visione dalla mente e ripresi a combattere. I carabinieri avanzavano. Ma noi continuavamo, insistevamo, e non ci davamo per vinti. Nonostante molti venissero inghiottiti dalla bocca nera.
Dovevamo cambiare lo stato delle cose.