Marco Ferrari - Dis-Ordine
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Postato da: zaphod
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Uscito dalla palestra, s’intrattenne nel bar della caserma a fare due chiacchiere con i colleghi.
“Cosa sapete voi del casino che ci sta a San Michele?”
“Io so che c’è una mezza rivolta e che hanno mandato all’ospedale una dozzina di celerini.”
“Ieri sera in TV hanno fatto vedere che preparavano delle barricate legando i cassonetti tra di loro con delle catene e stendendo del filo spinato per forare le gomme dei mezzi.”
“Ma che fai, guardi i programmi di quei comunisti di merda? Il comandante ripete sempre che dobbiamo tenere il cervello sgombro dalle intossicazioni dei giornali e delle televisioni. Per fare il nostro mestiere si deve agire senza troppi grilli per la testa.”
“Va be’, pure io mi sono visto l’intervista a due tipi, uno col passamontagna e uno col casco, già esperti di guerriglia da stadio, che lanciavano dei proclami minacciosi.”
“Sì, ma qual è il problema? Non ho capito con chi ce l’hanno?”
“Non si capiva bene. Pensa che ‘sti infami mettevano in testa al gruppo donne vecchi e bambini!”
“Chi si mescola ai delinquenti, come fa a sperare che noi facciamo delle distinzioni? Quando si parte non possiamo guardare in faccia a nessuno.”
La nipote della vicina s’era ammalata e i medici avevano dato la colpa all’acqua. Ogni famiglia in paese aveva un caro al cimitero, passato da un calvario simile. I rubinetti vomitavano liquidi grigi e marrognoli, le radici degli alberi e degli ortaggi attingevano da falde inquinate, il bestiame ruminava la morte strappandola a morsi dal terreno.
Suo figlio se n’era andato a Roma a fare il militare e non era più tornato: aveva fatto la firma, s’era fatto una famiglia e a casa si faceva vedere solo alle feste comandate. Da quando era morto il suo Mario, nonna Giulia s’era rifugiata nel misticismo. Una vita cadenzata da gesti semplici, tra la messa delle sette a quella delle diciotto.
Anziché bonificare il territorio dopo decenni di inquinamento, il progetto di costruire un nuovo mostro a duemila passi dalla piazza, aveva scosso tutto il paese. Gli stessi dottori in giacca e cravatta che già avevano certificato che le falde erano sane e che i decessi di pecore, persone e bufale rientravano statisticamente nella media regionale e gli stessi corrotti amministratori invocavano all’unisono la necessità dell’opera.
Giulia ne parlò con il suo Dio e decisero insieme che quella cosa non andava fatta. L’ultimo suo sogno era che uno dei nipoti sarebbe tornato a vivere in paese, magari cogliendo l’occasione dell’eredità della casa. Nessuno sarebbe andato a vivere in un posto avvelenato e neanche lei avrebbe desiderato fargli patire una simile condanna. Avrebbe lottato.
Si presentò al raduno sulla strada provinciale brandendo la sua arma più potente: il crocifisso. C’era schierato veramente tutto il paese, persino i morti. In prima fila le donne e i bambini tenevano alte le fotografie dei loro parenti finiti dalla diossina e dagli altri veleni.
Giulia si avvicinò allo schieramento dei tutori dell’ordine. Cercò tra quell’accozzaglia compatta di scudi, caschi, scarponi e ginocchiere, gli occhi di questi ragazzi per raccontargli la sua storia. Ma quegli occhi erano fissi, come quelli di una bambola.
“Mio figlio sta a Roma, è un carabiniere come voi, è un maresciallo. Si chiama…”
Le sue parole furono interrotte dall’ordine di attaccare. L’ondata di violenza la sfiorò solamente, protetta dal Salvatore come per miracolo. Restò ferma, lì con le sue lacrime e il suo sogno perduto.